Il dramma dei ‘bambini di Chernobyl’: “Le radiazioni non scompaiono”
20/03/2011 di Donato De Sena
Il racconto di una ragazza bielorussa che ha vissuto e vive sulla sua pelle, ancora oggi, il dramma nucleare
Sono nati dopo l’esplosione della centrale nucleare ucraina di Chernobyl. Ma sono cresciuti nel segno di quel drammatico incidente. Sono i ragazzi dell’Est Europa, protagonisti di storie di malattie, viaggi, trasferimenti, paure protrattisi nel tempo nel nome della strage di 25 anni fa. Il disastro di Chernobyl è diventato un fardello per una generazione di bielorussi, il paese più contaminato dalla nube radioattiva generata dall’incidente nucleare, trasportata fuori confine dai venti che soffiavano verso Sud. Le aree completamente incontaminate erano rare. I pericoli per la salute hanno caratterizzato e ossessionato i primi anni di vita di tanti bambini.
CHERNOBYL, 25 ANNI FA – Una di loro, Natassia Astrasheuskaya, oggi corrispondente della Reuters a Mosca, si dice vicina alla popolazione giapponese che rischia grosso per i danni alla centrale di Fukushima: “Non si sa ancora quali possano essere gli effetti dei reattori danneggiati dallo tsunami su coloro che vivino nelle vicinanza, ma spero – dice al New York Post – non debbano sopportare quello che abbiamo vissuto sulla nostra pelle”. “Sono nata il 31 agosto 1989 nella città di Mogilev, a 320 km da Chernobyl. Mogilev era l’epicentro della nube radioattiva che soffiava verso la Bielorussia dopo l’incendio nello stabilimento nucleare nell’aprile 1986”, ricostruisce la ragazza. “Non c’era alcuna spiegazione ufficiale: niente alla televisione, niente alla radio, non una parola da parte dei funzionari – ricorda -. Le autorità non volevano creare panico tra le masse che camminava e viveva nelle zone inquinate. Erano all’oscuro di ciò che stavano respirando. Pelle bruciata e problemi polmonari sono state le conseguenze per i più fortunati”.
CROLLO DELLE NASCITE – “Non c’ero, ma i miei genitori me ne parlano. Quando seppero del pericolo, mia madre e mio fratello si trasferirono a Mosca. Mio padre rimase a Mogilev per continuare a lavorare. Perfino la respirazione era pericolosa, ma la famiglia aveva bisogno di denaro”. Una separazione durate cinque mesi: nulla sarebbe cambiato in fretta. Inutile starsene in disparte. L’emigrazione non era una soluzione valida. I tassi di natalità scesero al punto più basso di sempre. La genta vedeva le deformazioni nei bambini nati appena dopo il disastro e non aveva il coraggio di metterne al mondo. “Sono stata fortunata ad essere nato senza difetti, a parte un ingrossamaento della tiroide”, fa sapere Natassia.
FUKUSHIMA, OGGI – La generazione dei “bambini di Chernobyl” fu destinataria delle iniziative di solidarietà di tutta Europa. Le famiglie del Vecchio Continente ospitarono i giovanissimi delle zone della tragedia per diverse settimane, ogni estate. Ebbero modo così di respirare aria pulita, mangiare cibo sano e incontaminato. “Avevo otto anni quando fui selezionata per visitare l’Inghilterra per un mese. Ho capito quanto fosse vergognoso ammettere che ero una dei ragazzi di Chernobyl. C’era la paura delle radiazioni, una famiglia inglese rifiutò la mia scatola di cioccolatini che avevo portato dalla Bielorussia. ‘Chernobyl’ era l’unica parola che hanno pronunciato gettando la scatola nell’immondizia, come se si trattasse di veleno”. Natassia avverte sulle possibili conseguenze. I rischi per la salute in Giappone sono gravi. “Se la situazione peggiora le conseguenze potrebbero essere pagate anche dai figli e dai nipoti dei giapponesi esposti alle radiazioni. Le radiazioni non scompaiono mai”, avverte la ragazza. “Porto con me – aggiunge – gli effetti e li trasmetterò probabilmente ai miei figli, indipendentemente da dove loro nascano. Non c’è niente che posso fare ora”. Un dramma. Senza se e senza ma.