Il non ritorno
24/12/2011 di Clementina Coppini
Ho scelto la festa sbagliata, peccato che era la mia vita
Qualche giorno fa per caso ho incrociato questo aforisma di Franz Kafka: “Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.” Giusta, vera, estrema. Cosa ci dice? Che, nel seguire i sogni e le convinzioni, capita di pervenire al punto di non ritorno. È un chiaro monito proseguire nelle proprie aspirazioni fino all’ultimo limite, ma anche a pensarci bene, prima di intraprendere una strada, perché poi si rischia di non poter più fare dietrofront. Se hai intenzione di farcela, ti devi buttare, devi avere il coraggio di arrivare laggiù, dove potrai solo guardarti indietro e pentirti della strada che hai scelleratamente percorso, di tutte le volte che potevi tornare indietro e non l’hai fatto, magari seguendo la sciocca illusione che all’ultimo momento, se le cose iniziavano ad andare male, ti saresti inventato qualcosa per uscirne indenne. Ma tu sei troppo cretino e, al momento buono, non ti è venuto in mente niente di niente. Ora eccoti qui, troppo avanti per i ripensamenti, troppo indietro per i festeggiamenti. Quante volte ti è capitato, alle 23,30 del 31 dicembre, di capire che avevi scelto la festa sbagliata?
AUTOSOPPRESSIONE – L’impossibilità del ritorno può essere vista come qualcosa di eroico e artistico, sì, ma anche come una bella sfiga causata in parecchi casi dalla cialtroneria. L’Italia intera si è trovata lì, a un certo punto, perché non aveva riflettuto per tempo sulle conseguenze delle proprie azioni e aveva lasciato correre troppe volte. Ecco, questo è un esempio di punto al quale non si dovrebbe arrivare. Il saper discernere tra quando è il momento per andare avanti e quando quello di tornare indietro è per definizione detto saggezza. Kafka saggio non lo fu mai, e questo contribuisce non poco al suo fascino. Franz era figlio di un uomo ignorante e cattivo, che odiava il talento del figlio. Come può un padre detestare le virtù della sua prole? Può eccome, e infatti lui era così. Quando parla del punto dal quale non si può tornare, Kafka ha ben presente il padre, anche se gli piaceva dire che non si ricordava nemmeno la sua faccia. Invece probabilmente ce l’aveva stampata in mente e cercava solo di dimenticarsela. Chi ci spinge al punto del non ritorno, anche quello eroico che ci fa diventare artisti, è qualcuno che ci odia. A volte non bisogna nemmeno andare lontano, perché quel nemico a volte siamo proprio noi stessi che vorremmo autosopprimerci. Il conflitto interiore, che visto da fuori in alcuni casi ti fa sembrare interessante, è una gran rottura di palle, che porta a fare cazzate più o meno grandi, a volte immense. Noi siamo un popolo che ha un conflitto interiore su scala nazionale, e non è escluso che sia anche grazie a esso che negli scorsi cinquemila anni abbiamo prodotto la maggior parte delle opere d’arte della Terra.
LA PIUMA DI FORREST GUMP – Però abbiamo prodotto anche una serie davvero inquietante di anime nefande, autrici di atti scellerati. Per cui, a essere sinceri, mentre un tempo avrei letto la frase di Kafka come un poetico invito a vivere una vita da poeti, adesso, che peraltro ho visto come vivono i poeti, la leggo più come un’ammissione di impotenza di fronte al destino e a noi stessi. Siamo piume che svolazzano come nei titoli di testa e di coda del film Forrest Gump. Finalmente lo so. L’acquisizione di questo dato fondamentale l’ho pagata a caro prezzo. Non dico che mi è quasi costata la vita giusto perché non amo il melodramma. A volte si arriva al punto di non ritorno per caso, senza rendersene conto, senza opportuni presupposti né adeguata preparazione. Ci si arriva da artisti o da scemi qualunque o chissà come. Arrivare a questo punto Kafka comunque non dice che sia qualcosa di positivo. Dice che bisogna arrivarci, non che tale traguardo sia vantaggioso. L’ineluttabilità non è sempre un bene, sebbene sia un modalità per essere costretti a prendere coscienza anche quando non se ne ha la minima voglia. A cosa serva tutto ciò non è dato sapere. Kafka morì di tubercolosi a 41 anni. Era il 1924. Le sue tre sorelle morirono in campo di concentramento circa vent’anni dopo. Quello forse sarebbe stato il destino anche dell’ebreo Franz, forse no. Noi non sappiamo se finiremo in un successo o in un fallimento, o in entrambi, ma andiamo lo stesso. “Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.”