L’imprenditore finito sul lastrico per aver denunciato la ‘ndrangheta
24/06/2015 di Redazione
Essere costretto al fallimento per l’azione estorsiva della criminalità organizzata. Perdere l’azienda e la casa. Denunciare una decina di componenti di una cosca della ‘ndrangheta ma non riuscire ad accedere all’indennizzo riservato agli imprenditori che denunciano il racket. Infine, vivere in povertà, grazie alle donazioni del Banco alimentare, di una parrocchia e della Caritas. È la drammatica storia di Salvatore Barbagallo, 65 anni, ex titolare di un’impresa di trivellazioni che per chiedere aiuto ad un rappresentante delle istituzioni lo scorso 19 maggio a Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, si è sdraiato a terra in strada per alcuni minuti bloccando l’auto di Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, giunta nel comune calabrese per una visita.
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SALVATORE BARBAGALLO, VITTIMA DELLA ‘NDRANGHETA: LA STORIA –
Barbagallo è vittima di una vera e propria odissea burocratica. Dopo 8 anni il processo non è ancora iniziato. Ricostruisce Federico Fubini sul Corriere della Sera:
Il 3 marzo del 2007, quando era ancora titolare di un’impresa di trivellazioni, era entrato nella Questura di Vibo sapendo che da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata. Ciò che non aveva previsto è che quel gesto si sarebbe trasformato in una lezione ben assimilata da quasi tutti gli altri imprenditori della provincia: in un sistema burocratico e giudiziario in crisi, denunciare il racket è come buttarsi da un aereo senza sapere se il paracadute che vi hanno dato si aprirà. «Ero alla disperazione», dice oggi Barbagallo. Si riferisce a quando fece i nomi di una decina di esponenti dei Mancuso per una serie di reati ai suoi danni. Per anni lo avevano obbligato a scavare pozzi gratis sulle loro terre, quindi si sono impadroniti delle sue trivelle, infine avrebbero approfittato della bancarotta a cui l’aveva ridotto per sottrargli la casa in un’asta giudiziaria truccata.
La denuncia sembra essere stata insomma per l’imprenditore solo un ulteriore passo verso il baratro:
Da allora è in terra di nessuno. Non ha più l’azienda, lavora come badante, ma la sua richiesta di accedere all’indennizzo riservato agli imprenditori che denunciano il racket resta senza risposta. Dopo otto anni non ha né un sì, né un no. Ha scritto a uffici di ogni tipo e la procura antimafia lo convoca regolarmente a testimoniare contro la ‘ndrangheta. Lui va, ma per una serie di vizi di forma e rinvii, i processi per i reati ai suoi danni restano bloccati. La prescrizione incombe.
Poi le difficoltà economiche mai superate:
L’ex imprenditore vive delle donazioni del Banco alimentare, di una parrocchia e della Caritas. Era così anche un anno fa ma, nota, l’aiuto si sarebbe intensificato dopo che al clero locale sarebbe arrivata un’email dagli uffici in risposta a una sua lettera a papa Francesco.
Nessun sostegno nemmeno dal governo, che ha comunque a disposizione tutti i soldi necessari per indennizzare chi denuncia il racket:
Quando una dichiarazione fa scattare un’ipotesi di reato per estorsione, l’imprenditore ha diritto a un indennizzo dal Fondo del ministero dell’Interno per le vittime del racket e dell’usura, la cui contabilità mostra tuttavia che qualcosa non funziona: è una delle poche voci nel bilancio dello Stato in cui la disponibilità supera la spesa. Nel 2014 il fondo aveva 81,5 milioni di euro, ma ne ha impiegati 60,8 e di questi appena 10,9 per le vittime del racket. Ci sarebbe spazio per triplicare le denunce, e sarebbe logico: secondo il Censis, l’80% degli imprenditori in Italia trova che negli ultimi due anni l’estorsione sia aumentata.
Infine, il pantano giudiziario:
A otto anni dalla denuncia di Barbagallo, i testimoni da lui indicati non sono ancora stati sentiti, i processi sono fermi, il reato di estorsione che innesca la domanda di indennizzo non è neanche stato ipotizzato. Lo citò una volta un magistrato, ma all’udienza successiva era già stato sostituito: il tribunale di Vibo è così cronicamente sotto organico che molti cercano di farsi trasferire al più presto e i rinvii d’ufficio si inseguono.
(Foto di copertina: Ansa)