Perché una donna «vale» la metà di un uomo
24/02/2014 di Alberto Sofia
Le donne? Se si analizza la capacità di generare reddito, secondo le stime dell’Istat , «valgono» la metà degli uomini. Dallo studio dell’istituto nazionale di statistica, in base ai dati del 2008, emerge una forte differenza di genere nel nostro Paese. Il valore stimato per calcolare il “capitale umano” di ogni italiano ammonta a 342mila euro. Lo stock complessivo si concentra però per il 66% nella componente maschile, per la quale il capitale umano pro capite è pari a 453 mila euro. Soltanto 231 mila euro a testa è invece quello della componente femminile: per questo l’Istat ha evidenziato come la capacità di generare reddito sia per le donne quasi dimezzata (-49%). Il motivo? Pesano disoccupazione e salari: restano forti le differenze di remunerazione esistenti tra uomini e donne, ma ad incidere è anche il minor numero di donne che lavorano e quello relativo agli anni lavorati in media dalle stesse nell’arco della loro vita. Va sottolineato però come i numeri siano differenti se si analizzano non soltanto le attività di mercato, ma anche quelle domestiche.
Dato che, come ha spiegato l’Istat, «le donne prevalgono di gran lunga nel lavoro domestico», le differenze di genere si riducono se si estendono le stime dello stock di capitale umano considerando le attività non “market” (la produzione di beni e servizi ceduti e fruiti gratuitamente), che comprendono anche il lavoro domestico. In questo caso le donne si aggiudicano un valore pro-capite di 431 mila euro (con un +12,3% rispetto agli uomini).
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LE DONNE E LA CAPACITÀ DI GENERARE REDDITO – I numeri del lavoro dell’Istat hanno mostrato come, sulle “attività market”, in Italia siano necessarie due donne per creare il reddito di un uomo. Numeri pesanti, quelli forniti dall’ente di statistica, che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui. Se ogni italiano “vale” sul lavoro 342mila euro. Diversi i parametri usati per l’analisi: dal genere, all’età, passando per le potenzialità professionali e la preparazione scolastica. Indicatori che, come ha spiegato l’Istat, permettono di “monetizzare” le potenzialità di un individuo e quindi l’impatto dello stesso sul Pil. L’Italia sconta “un rilevante gap in termini di stock di capitale umano” rispetto ai “principali Paesi Ocse”, secondo l’Istat: il nostro Paese è ultimo tra Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna, gli Stati che hanno aderito al progetto Human Capital dell’Ocse. Ma l’anomalia più rilevante, come spiega anche Repubblica, è proprio l’ennesima conferma delle enormi differenze di genere. tra donne e uomini. Pesa la questione della disoccupazione femminile, considerato che soltanto il 50% delle donne italiane lavora. Quando ha un’occupazione, poi, la sua retribuzione è inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. Per questo, nel calcolo del capitale umano, pesa soltanto 231mila euro contro i 453mila del partner.
IL LAVORO DOMESTICO – Va ricordato come alle cifre andrebbero aggiunte quelle che derivano dal lavoro domestico. Quello quasi invisibile, legato alla cura della famiglia, ai figli, alla casa, che pesa spesso molto di più sulle donne. Il cosiddetto “welfare familiare”, come spiega Repubblica, quasi mai riconosciuto né monetizzato. La docente Daniela Del Boca spiega sul quotidiano diretto da Ezio Mauro:
«La donna viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi. Subisce poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoesclude dal mercato».
Questioni che pesano sui numeri e sugli studi sulle potenzialità o meno di produrre reddito.
DIFFERENZE DI GENERE E GIOVANI – I numeri, in pratica, non dimostrano come sia meno conveniente investire nel capitale umano delle donne, bensì fotografano soltanto le forti discriminazione di genere ancora presenti nel nostro Paese, in questo caso nel mondo del lavoro. Dal basso tasso di occupazione femminile – dovuto anche al peso del lavoro domestico – ai salari bassi, le donne che si trovano nel mercato in Italia restano discriminate. E il nostro Paese continua così a sprecare un alto potenziale del proprio capitale a disposizione. C’è anche un altro dato rilevante, quello che fotografa la capacità di generare reddito dei giovani. Il capitale umano pro-capite di un giovane è pari a oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. «Va però rilevato che l’alto livello della disoccupazione giovanile nel nostro Paese suggerisce forte incertezza circa la possibilità per i giovani di inserirsi nei processi produttivi», ha concluso l’Istat, secondo cui è possibile rivedere la ribasso la stima del valore del capitale umano complessivo del Paese. Conclude Chiara Saraceno su Repubblica:
«I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna»