Lui è Kobe Bryant. Gli altri no
29/10/2014 di Adriano Ercolani
Come sarà la stagione dei Lakers? Probabilmente complicata. Dopo la prima sconfitta interna con gli Houston Rockets e l’infortunio del promettente rookie Julius Randle – rottura della tibia e stagione finita – probabilmente molto complicata. Ma poco importa.
Kobe Bryant è tornato a giocare.
Una leggenda merita di chiudere la carriera in campo, ed è fondamentalmente questo che si chiede ai prossimi, ultimi anni da professionista del 24 gialloviola. Quando il 12 aprile del 2013 contro i Golden State Warriors il tallone d’achille gli ha ceduto molti hanno pensato che sarebbe finita lì. Kobe si rialzò zoppicando, andò in lunetta, segnò entrambi i tiri liberi e poi uscì dal campo sulle sue gambe. Avrebbero potuto essere i suoi ultimi passi da cestista.
Cosa gli ha impedito di chiuderla lì? Cinque titoli NBA, due titoli MVP delle Finals, un palmares che prenderebbe il resto dell’articolo a scriverlo per intero. Perché Bryant ha deciso di rientrare?
Quasi sicuramente per colpa di quel certo Michael che indossava la 23 a Chicago.
Perché Kobe è l’unico cestista che negli ultimi quindici anni può essere veramente accostato a sua maestà Air Jordan. Non è una questione di premi o statistiche, ma di sguardi.
Cercate un qualsiasi loro filmato durante un’azione di gioco, sia esso un match di regular season, playoff o una finale. Guardateli negli occhi. Seppur campioni di livello, non ci sono LeBron James, Dwyane Wade, Tim Duncan che tengano. La padronanza tecnica e mentale che Jordan e Bryant hanno esercitato sul gioco è semplicemente sintonizzata su un altro livello.
Che lo abbia più o meno pubblicamente ammesso, Kobe ha sempre avuto Jordan nel suo mirino. Difficilmente arriverà a prendersi quel sesto titolo NBA per raggiungerlo, ma almeno a superarlo come marcatore in carriera vuole riuscirci. Al momento in cui scriviamo siamo a 32.293 per Jordan, 31.719 per Bryant. Il sorpasso avverrà verosimilmente già quest’anno: anche se la star dei Lakers avrà meno minuti a disposizione, anche con le ginocchia come sempre malconce, anche se faticherà più di quanto è mai stato abituato a fare per buttarla in fondo al canestro. Trentasei anni non sono uno scherzo, soprattutto dopo gli ultimi infortuni.
Kobe Bryant non è il mio giocatore preferito. A pensarci bene non è neppure nella mia Top3 dei campioni in attività. E’ sempre stato uno col bisogno sfrenato di avere il pallone in mano, spesso a scapito del ritmo di gara e dei compagni. Personalmente preferisco un tipo di guardia che gioca con gli altri, a cui non serve trattenere ogni palla per segnare 20 punti o più. Il fatto è che quando però la sfera a spicchi gli arriva, tutti gli altri giocatori in campo, avversari e non, percepiscono che sa esattamente cosa farne e che soprattutto sa di poterlo fare. Non conta quasi se poi segnerà o meno. E’ una questione di mentalità, d’imposizione del proprio io/cestista sugli altri.
Jordan e Bryant. Punto.
Quando Kobe smette di essere una grande promessa del basket NBA e acquisisce lo statuto di campione? La data esatta è il 14 giugno del 2000. I Los Angeles Lakers sono finalmente arrivati in finale, e non succedeva dai tempi di Magic Johnson. Ad aspettarli gli Indiana Pacers di coach Larry Bird (come dire, un bel ricordo per i Lakers…) e di un giocatore dal discreto carisma e tiro che risponde al nome Reggie Miller. Quello che prima di essere spodestato dall’orologio svizzero Ray Allen deteneva il record di tiri da 3 segnati.
All’inizio i Lakers vanno più o meno facilmente sul 2-0 sfruttando il fattore campo, però le cose in Indiana cambiano drasticamente. I Pacers vincono Gara3 e nella successiva si va punto a punto fino ai supplementari. Poi O’Neal esce per raggiunto limite di falli. Fino a quel momento (meno di tre minuti al termine, un’eternità nel basket) ne ha messi 36, conditi con 21 rimbalzi. Estromesso il centro dominante sembra fatta per i padroni di casa, i quali segnano subito e si portano sul -1, 111-112. I Lakers sono sulle ginocchia, praticamente si fermano. L’azione d’attacco stagna, Kobe riceve palla a dieci metri dal canestro. Lo marca Miller. Non sembra sapere benissimo cosa fare, palleggia fino ad arrivare sulla linea dell’arco, poi aspetta ancora un po’. Alla fine finta la penetrazione, sbilancia Reggie e si alza per il jumper. Due punti alla sua maniera. Ne metterà altri quattro, con il canestro dopo un rimbalzo d’attacco per il 120-118 finale. E’ il momento della consacrazione, quello in cui nella testa del giocatore si è definitivamente insediata l’idea che i Los Angeles Lakers sono proprietà sua. E di nessun altro.
Come tutte le bandiere, Bryant ha scritto la storia dei Lakers ma li ha anche tenuti in ostaggio.
Dopo la scissione con Shaq e Phil Jackson successiva all’inaspettata sconfitta in finale con i Detroit Pistons nel 2004 (quello sì che poteva essere il suo sesto titolo…), Kobe ha giocato per sé invece che per la squadra, senza mezzi termini. Ne sono conseguiti svariati titoli come marcatore – uno con più di 35 punti di media a partita, cosa che guarda caso non succedeva dai tempi di Jordan…- e almeno un paio di performance da ricordare.
Il 20 dicembre 2005 in una partita allo Staples Centers i Dallas Mavericks dopo tre quarti di gioco hanno segnato 61 punti. Bryant 62. Un mese dopo, il 22 gennaio 2006, contro i Toronto Raptors il tabellino dice 81, seconda prestazione di sempre nella storia dell’NBA. Ma in questi anni Bryant finge praticamente di non ricordare che a pallacanestro si gioca su due metà del campo. Quello che avrebbe potuto essere uno dei difensori sulla palla più letali dell’intero circuito NBA semplicemente si disinteressa della questione per svariate stagioni, perché deve arrivare in attacco riposato.
La prova inconfutabile che i Lakers sono ostaggio di Bryant è arrivata lo scorso anno, quando pur fermo ai box per l’infortunio ha firmato un contratto biennale che definire faraonico è riduttivo. Impedendo in questo modo alla franchigia di fare spazio nel salary cap e offrire ad altri campioni il denaro necessario per venire a Los Angeles. E vincere ancora.
Kobe invece del titolo che lo avrebbe portato a livello di Jordan ha scelto i soldi. Perché? Più del tempo che passa e dell’età deve aver contato la stagione 2012/2013, quella in cui sono arrivati Steve Nash e Dwight Howard, sulla carta due giocatori di primissimo livello. E invece tutto è andato storto, perché il primo è ormai troppo “vecchio” e malconcio per poter ancora incidere veramente, mentre il secondo ha dimostrato la maturità cestistica e psicologica di un dodicenne. L’infortunio contro i Warriors è stata soltanto la ciliegina sulla torta di una stagione totalmente fallimentare, e il contraccolpo deve aver fatto riflettere Kobe sulle reali possibilità di vincere ancora. Bryant ha abdicato, Michael Jordan rimane il padrone assoluto del basket americano contemporaneo. Ed in fondo è giusto così.
Godiamoci quindi tutto ciò che resta di questo numero 24 giallo e viola. Siamo al tramonto, su questo non c’è dubbio. Ma quante volte ci siamo fermati ad ammirare i colori splendenti del sole calante?