La grande bufala della sindrome post-aborto
15/10/2013 di Chiara Lalli
Si è diffusa negli Stati Uniti, sta arrivando anche in Italia. La chiamano Sindrome post abortiva (Post Abortion Syndrome) e sarebbe una sindrome post traumatica successiva a ogni interruzione di gravidanza. È l’ultima frontiera nel mondo delle strategie che si oppongono alla possibilità di scegliere e alla garanzia dei servizi sanitari in ambito riproduttivo. Viene in soccorso alla strategia dell’attribuzione di diritti fondamentali all’embrione, con la conseguente affermazione che abortire significherebbe compiere un omicidio – ma spesso senza spingersi coerentemente nel definire “omicide” le protagoniste di quell’atto, perché è troppo impopolare. Gli oppositori della scelta lo capiscono bene: un conto è voler difendere gli embrioni e la “vita” (spingendo chi vuole difendere la scelta a dover spiegare che chi la pensa diversamente da loro non è mica contro la “vita”, e che il termine “vita” è così ambiguo da essere insensato ma strategicamente molto utile), un altro è dire che le donne che abortiscono sono assassine e dovrebbero essere punite per questo con il carcere, come ogni altro assassino.
ESISTE? – Non esistono studi che sostengono l’esistenza di questa sindrome, e il primo passo necessario è quello di distinguere le condizioni in cui un aborto è compiuto. Non è corretto parlare di interruzioni di gravidanza come fossero un dominio compatto e come se tutte le donne reagissero allo stesso modo. Volontà, libertà, conflitti e molte altre circostanze determineranno le emozioni e le reazioni specifiche. Il primo passo dell’accusa invece sta proprio qui: affermare che intrinsecamente ogni aborto è male, dolore, rimpianto, colpa, vergogna. Ogni aborto non può che essere quanto di più lontano da quello che ogni donna sceglierebbe. Un pezzo su Tempi, «Sindrome post aborto. Riconoscere che esiste, per aiutare le donne a ritrovare la speranza», annuncia l’incontro di oggi sul tema, presso il Centro di Aiuto per la Vita «Roma Palatino Onlus». Comincia proprio con la presunta incontrovertibilità della SPA, con una certezza dalle gambe così fragili da non reggere nemmeno una breve passeggiata.
INFERENZE A CASO – «La Sindrome Post Aborto (PAS) è studiata già da molto tempo negli Stati Uniti. Si afferma che il 62% delle donne che hanno effettuato aborti volontari (le c.d. IVG) soffre di questa sindrome con conseguenze psico-fisiche anche gravi e, ciò, mette in dubbio che la legge per l’aborto abbia come scopo quello di salvaguardare la salute mentale delle donne». Le fonti non sono nominate. Peccato, perché sarebbe stato bello sapere come e chi ha condotto studi del genere e come si è arrivati a queste conclusioni. Ma è comunque illegittimo passare oltre, arrivando a negare – ancora una volta in blocco – che la legge possa avere quell’intento di salvaguardia. Una legge che permette di abortire non obbliga nessuno a farlo, e la ratio di una normativa dovrebbe essere di proteggere le persone più deboli nelle condizioni immaginate come le più complicate. L’autore del pezzo avrebbe dovuto leggere lo studio sulle Turnaways, ovvero le donne che non hanno potuto abortire. Sarebbe stato sorpreso nel sapere che stanno peggio di quelle che hanno avuto la possibilità di abortire al sicuro e in ospedale.
AUTONOMIA – I cosiddetti pro-life ce l’hanno con l’autonomia, e Claudia Navarini parte proprio da qui, dalla sua «visione artificiosa e astratta dell’autonomia della donna» come “dimostrazione” dell’erronea possibilità di scegliere. Ma sceglie di portare come esempi solo le condizioni che hanno poco o nulla a che fare con l’autonomia: «La donna è generalmente sottoposta a pressioni e paure che non la lasciano poi così “libera di decidere”, e che in numerosi casi le fanno addirittura percepire (erroneamente) l’aborto come una necessità». È ovvio che le pressioni cambino aspetto alla decisione, che può addirittura diventare un’imposizione. È anche ovvio che in tali condizioni ci siano vissuti e conseguenze negative, verosimilmente più correlate alle modalità in cui si abortisce più che all’aborto stesso. La strategia di confondere le acque e di forzare tutte le possibili interruzioni volontarie di gravidanza nella casella «interruzioni forzate e indotte» è funzionale, ma sbagliata. Si usa ciò che si dovrebbe dimostrare come inconfutabile prova per opporsi all’aborto, non importa cosa ne pensino le dirette interessate (è comune, in prossimità di paternalismo, non consultare le persone in nome delle quali si sta parlando, considerate come inette e incapaci di esprimere o addirittura di avere un parere).
CONSEGUENZE – Anche sul fronte delle conseguenze si ripropongono vecchie e perfette strategie, anche se menzognere: il senso di colpa c’è sempre, è una reazione necessaria – dicono. Se non lo senti, vuol dire che lo stai rimuovendo o che è troppo forte per sentirlo. Non fa una piega: la dimostrazione passa anche per un’assenza, cui si attribuisce quanto s’è deciso inizialmente. È quanto succede in molte discussioni apparenti, o nelle allucinazioni amorose: «È ancora pazzamente innamorato di me, ne sono certa, e il fatto che non mi chiami e che mi attacchi il telefono dimostra che mi ama troppo». Ogni tentativo di spiegare che no, che il fatto che l’amato non si faccia sentire potrebbe essere spiegato diversamente non ha alcuna possibilità di successo con chi ha deciso di fare finta di dormire. «Non risponde al telefono né ai miei messaggi perché è intimidito dal mio impeto».
“BAMBINO” – La scelta terminologica è precisa e finalizzata a rinforzare quella colpa e quel velato accenno all’essere assassine. L’embrione è bambino da subito. Domanda: «Si dice che l’aborto non solo privi un bambino della propria vita ma anche una madre di suo figlio e, finché si continuerà a negare l’esistenza della “sindrome post abortiva”, continuerà a privare la donna anche del suo lutto, impedendogli di elaborarlo. Cosa ne pensa?». Risposta: «In effetti la morte di un figlio, qualunque sia la sua età o il suo stato di salute, lascia inevitabilmente una ferita profonda e perenne nel cuore di una madre. Figuriamoci che cosa può accadere quando la responsabilità di questa morte è della madre stessa». Bambino, figlio. La stessa strategia impone di chiamare “madre” la donna appena fa il test di gravidanza. Anzi, pure prima perché si è già madri anche senza saperlo.
PATERNALISMO – D’altra parte anche la contraccezione e le tecniche riproduttive sono da guardare con sospetto, non sia mai diventiamo così strafottenti da osare ribellarci a quanto la “natura” ci regala. Quella stessa natura che ci dispensa malattie e acciacchi. Non c’è spazio per l’esercizio della nostra volontà, né per un’analisi onesta delle circostanze in cui si decide di abortire nella loro interezza. Perché se una donna viene costretta – sia letteralmente sia metaforicamente – a scegliere di abortire, quella scelta non sarà più tale ed è verosimile che le sue reazioni saranno di dolore e rimpianto. Ma escludere che una donna possa scegliere di abortire perché non vuole un figlio o non ne vuole un altro è di una presunzione sconfinata. Ma il paternalismo affonda le radici proprio nell’allucinatoria convinzione che il nostro parere sia quello Giusto, sia quello da imporre a tutti, perché noi siamo in grado di capire e prevedere e gli altri no. E allora, donna, ti avvertiamo: non puoi scegliere, non puoi decidere da sola, se non vuoi quel “figlio” pagherai un prezzo molto alto, perché in realtà tu lo vuoi quel figlio e rinunciarvi sarà un fantasma che ti darà la caccia in eterno.
LA SPA È UNA STRATEGIA POLITICA – La SPA è una strategia politica che, per essere più efficace, è stata vestita da sindrome psichiatrica. Alcuni la accompagnano a conseguenze fisiche: tumori, sterilità, danni alla salute. Tutto falso, ma tutto molto convincente, soprattutto se mascherato da “ricerche scientifiche”. L’anello più fragile di questa costruzione deve essere ancora messo in luce: pur concedendo conseguenze dolorose e possibili vissuti conflittuali (che, come ho già detto, sono legate alle circostanze e non all’aborto in sé), non sarebbe legittimo eliminare la possibilità legale di abortire. Perché il vero bersaglio dei cosiddetti pro-life è questo. E il divieto legale non ha l’intento di proteggere i “bambini”, ma di esercitare la scelta al posto degli altri, di espropriarli anche della possibilità di sbagliare, tutto in nome del loro bene. Che non è chiaro come facciano a conoscerlo, il loro bene. E allora, donne, se pensate di poter capire quale sia la vostra volontà state sbagliando. E se vi passa per la testa che volete interrompere una gravidanza che non volete portare avanti, ricordate che la vostra “vera” volontà è un’altra. Non penserete mica di volerlo sapere meglio dei sostenitori della SPA?