L’accusa a Erri De Luca è figlia di una Procura sull’orlo di una crisi di nervi
22/09/2015 di Mazzetta
La vicenda che vede la Procura di Torino chiedere otto mesi di carcere per lo scrittore Erri De Luca, colpevole di aver solidarizzato con la protesta, è figlia di una preoccupante deriva che coinvolge le istituzioni sabaude schierate in difesa dell’opera e spesso pronte a superare le proprie prerogative per farlo. Una deriva che coinvolge anche la Procura e che è testimoniata da una lunga serie di processi intentati ai danni degli attivisti No-Tav a colpi di capi d’accusa inverosimili e da un uso innovativo di alcuni articoli del Codice Penale, in senso repressivo, già censurato più volte dalla Corte di Cassazione. Senza che questo abbia fatto desistere la Procura.
La Procura di Torino ha dato prova di un evidente strabismo, cestinando le indagini e le denunce per aggressioni e persecuzioni ai danni di attivisti No-Tav e perseguendo con accuse pesantissime chi ha preso parte alle manifestazioni in valle. Manifestazioni che insistono da più di 20 anni, ma che solo negli ultimi anni sono state affrontate attingendo all’arsenale legislativo predisposto negli anni ’70 per la lotta al terrorismo. Una linea inaugurata durante la reggenza di Gian Carlo Caselli e poi difesa dai sostituti e dal Procuratore Generale Marcello Maddalena, che tra poco si ritroverà in aula perché ha prima d’andare in pensione ha deciso di sparare le sue ultime cartucce in difesa del teorema torinese, che qualifica come terrorismo le proteste in valle.
Il 15 ottobre si aprirà il processo di appello, a Torino, per l’incendio di un generatore di corrente nel cantiere di Chiomonte, avvenuto nella notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013. I quattro accusati sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per «detenzione di armi da guerra, danneggiamento seguito da incendio e violenza a pubblico ufficiale», avevano due molotov quando sono stati arrestati. Ma per la Procura torinese non bastava, ecco allora che dal cilindro è uscita la pesantissima «aggravante per fini di terrorismo». Idea cassata dal Tribunale già in primo grado, che accolse le accuse, pur gravissime, ma cestinò l’aggravante. In appello, chiesto dalla difesa dei condannati che considera spropositati i capi d’accusa, ci sarà il Procuratore Generale, Marcello Maddalena, e ci sarà per ribadire e difendere la richiesta dell’aggravante. Le motivazioni scritte dai sostituti Rinaudo e Padalino illustrano benissimo la deriva della Procura torinese: «L’assalto nella notte tra il 13 e il 14 maggio si colloca nell’antagonismo estremo, un atto di guerra contro il nostro Stato, per condannare le sue scelte di politica economica o condizionarlo nelle sue scelte future». La Cassazione però non è d’accordo e ha già cassato questa pretesa perché di «atti di guerra» non se ne sono visti e perché il danneggiamento del generatore non è idoneo a provocare un «grave danno per un Paese o un’organizzazione internazionale». La Cassazione non ha fatto mancare le sue critiche nemmeno a un’impostazione evidentemente minata da qualche pregiudizio, denunciando come evidente la «sproporzione di scala tra i modesti danni materiali provocati e il macroevento di rischio cui la legge condiziona la nozione di terrorismo» e lamentando da parte dei giudici torinesi «una ricostruzione dei fatti non sufficientemente argomentata, per poi desumerne comunque conseguenze giuridicamente scorrette».
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Incurante della censura dell’alta Corte, la Procura di Torino ha tirato dritto e ora il PG trascorrerà le ultime ore in aula prima della pensione, per sostenere ancora una volta le sue «conseguenze giuridicamente scorrette». Perché tanto accanimento non è dato sapere, ma è evidente che intorno e dentro alla Procura di Torino si vivano tensioni che non sono solo quelle delle pressioni della politica, con i fan dell’opera invocano da sempre la mano dura contro la protesta. Tanto evidente che è successo persino che l’autista del PM Rinaudo, Giuseppe Caggiano, sia stato sbugiardato dai carabinieri dopo aver denunciato un’aggressione, mai verificatasi, da parte di fantomatici quanto presunti esponenti No-Tav. Un «agguato» usato per gridare all’escalation «terrorista» da politici e PM, che quando si è rivelato una millanteria è scivolato in silenzio tra le cronache, così la presentò invece La Stampa, mettendoci anche del del suo in attesa delle dichiarazioni roboanti e allarmanti di giudici e politici:
Il protagonista di questa storia è Giuseppe, autista di Antonio Rinaudo, uno dei due magistrati in prima fila nelle indagini contro la parte violenta del mondo No Tav. Lui e Andrea Padalino, già finito pure lui nel mirino degli antagonisti. Critiche, accuse, scritte sui muri. C’è di tutto in questa campagna che ha nel mirino magistrati, poliziotti e giornalisti. E adesso nel mirino è finito pure uno degli autisti della Procura, un «giudiziario» come li chiamano gli addetti ai lavori, un dipendente del Ministero. Che ha una sola colpa: quella di fare ciò per cui lo pagano, portare in auto un magistrato. Rinaudo, appunto.
Che la matrice dell’aggressione sia quella dell’antagonismo più violento, quello che ha a che fare con gli scontri in val di Susa, le proteste contro i Cie e via discorrendo non ci sono dubbi. Anzi. Se mai si volessero cercare conferme basta leggere qui le parole che hanno urlato gli aggressori a Giuseppe «Servo dei servi dei servi», un leit motiv sentito troppe volte in passato. Alle manifestazioni più dure. Alle giornate di protesta. E sempre dirette contro poliziotti e carabinieri. A Giuseppe hanno poi riservato un’altra frase che gela il sangue: «Oggi tocca a te. Domani verranno gli altri».
Parole che rimandano agli anni più bui del terrorismo. Agli anni dove parlavano le armi e poi le rivendicazioni «Altri seguiranno».
La Procura di Torino manca evidentemente della serenità necessaria per affrontare questi processi ed è da tempo percepita come il braccio armato del fronte favorevole all’opera e rimproverata per la sfacciata ostilità e aggressività verso chi protesta. Le accuse senza fondamento e il ricorso ad aggravanti non applicabili sono l’altra faccia del processo a Erri De Luca, quella che vedono più che altro i movimenti impegnati in valle e che resta celata alle opinioni pubbliche attirate dai periodici picchi d’attenzione attorno alla lotta in Val di Susa. L’altrettanto evidente eccesso nelle accuse spiccate contro De Luca è figlio di questa impostazione preconcetta e poco in sintonia con lo spirito del nostro sistema giudiziario, forse è tempo che l’organo di autogoverno della magistratura intervenga e riporti la Procura di Torino entro i binari di una gestione meno schierata e più in linea con i precetti costituzionali e le indicazioni già ribadite più volte dalla Cassazione. Se ora molti sostengono che con l’accusa a De Luca sia stata varcata una di quelle linee che separa «il mondo laico e liberale» da altri mondo meno vivibili, è solo perché in precedenza i molti commentatori e gli egregi garantisti in servizio permanente effettivo quando c’è da difendere un politico del proprio schieramento, erano distratti. Molto distratti, quella linea a Torino l’hanno passata da un bel pezzo, con il consenso dei media e anche di buona parte della politica.