Lo chiamavano Jeeg Robot: il supereroe burino che ci piace un casino – RECENSIONE
01/03/2016 di Boris Sollazzo
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, LA RECENSIONE –
Lo chiamavano Jeeg Robot è un gran film. Lo chiamavano Jeeg Robot è un punto di svolta nel nostro modo di intendere il grande schermo. Lo chiamavano Jeeg Robot è uno di quei lungometraggi che ci dice tante cose. La principale è che uno come Gabriele Mainetti dovremmo clonarlo. Un regista che non ha paura del cinema, ma che lo ama, che non è ossessionato dal dimostrarci quanto sia bravo (forse perché sa di esserlo), ma al massimo dal voler intrattenere il pubblico con trovate argute inserite in un immaginario che diventa contenuto e contenitore di una visione del mondo e della Settima Arte mai banale. Ma soprattutto uno come lui andrebbe clonato perché ci dimostra che nulla è impossibile, se si ha abbastanza talento, tenacia e originalità. Persino in Italia.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, LA TRAMA –
Un balordo che non ha amici, che vive (male) di espedienti e che è chiuso nella periferia, di Roma e della vita. Si chiama Enzo Ceccotti e un giorno per salvarci la pellaccia si tuffa nel Tevere, incontra un barile radioattivo e trova dei superpoteri.
Una ragazza, un’Alice nel paese degli orrori quotidiani, che per sfuggire alla miseria della sua vita si rifiuta nell’epica e nel mondo di Jeeg Robot.
Uno Zingaro che ama cantare musica camp, che ha avuto un quarto d’ora di successo al microfono di Buona Domenica (le disgrazie che non ti uccidono, siano sostanze letali o programmi trash, ti rafforzano) e che ora è un boss violentissimo e coatto.
Un film di supereroi. Un regista che i manga li adora (andate a recuperare i suoi capolavori Basette e Tiger Boy) e che sa come raccontarli all’italiana.
Un supereroe, una dama in pericolo, un supercattivo. Insomma, cosa volete di più? Correte in sala, avete tutto per divertirvi e riflettere. Anzi, di più.
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LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, IL CAST –
Già, perché Mainetti sa tenerti attaccato alla poltrona, ma senza che tu debba staccare il cervello. Lui te lo accende con lo sguardo spaurito di Enzo (un Claudio Santamaria al meglio che si è messo in gioco ingrassando quasi 20 chili e uscendo dai suoi vezzi interpretativi, come già in Diaz), con il candore romantico di Ilenia Pastorelli, bravissima nell’essere il cardine del senso profondo della storia, correndo il rischio di diventare macchietta, con gli eccessi di Luca Marinelli – attualmente il miglior attore italiano, per cui nessuna sfida recitativa è impossibile -, sorta di Joker de ‘noantri capace di domare un personaggio difficilissimo. Va oltre la Marvel, il regista, perché qui i superproblemi ci sono prima dell’arrivo dei superpoteri, perché ci dice cosa potrebbe davvero accadere se fossimo invasi da una forza che potrebbe cambiare le cose, perché puoi saper scardinare una macchina a mani nude e guarire in fretta, ma è il cuore che fa miracoli. I veri superpoteri vengono da lì. Gabriele Mainetti ci ricorda che non è un piano sequenza a fare la differenza, ma la capacità di un’opera di portarti altrove, rimanendo in te. Ceccotti, per te spettatore, è credibile, è reale, con lui ti diverti, con Ilenia ti commuovi, con lo Zingaro ti esalti (e dai, è figo, ce l’ha insegnato Coppola che i cattivi sono irresistibili). E quando poi ti soffermi sui “bravi” dello Zingaro o su Nunzia (Antonia Truppo, bravissima a fare la bastarda vera, insieme a Salvatore Esposito che gioca con la sua icona), capisci che Lo chiamavano Jeeg Robot non è solo un cult movie, è un lavoro delicato e raffinato, un romanzo di (tras)formazione e un’opera di genere di alto livello, è una sfida all’apparato produttivo italiano, pavido e incancrenito: ecco, Mainetti, sfidare il cinema italiano su quel piano è la dimostrazione che tu li hai sul serio i superpoteri. Per questo non servono acrobazie registiche, ma conta una sceneggiatura ben scritta – bravi Nicola Guaglianone e il fumettista Roberto Marchionni, in arte Menotti -, un casting perfetto) una fotografia di alto livello (le luci e gli angoli visuali di Michele D’Attanasio fanno la differenza), un montaggio, di Andrea Maguolo, che conosce la lezione dei grandi ma sa reinterpretarla. Perché un’altra cosa che sa, questo cineasta, è che il cinema è un gioco di squadra. Perché se a Hiroshi Shiba qualcuno non avesse lanciato i componenti, sarebbe stato solo un fenomeno da baraccone.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, IL SEQUEL –
Lo chiamavano Jeeg Robot è cinema. Non è neorealismo masticato, né commedia commerciale più o meno ben fatta, utile solo ai botteghini e a visioni rassicuranti della vita. E’ il coraggio di usare la macchina da presa come creatore di mondi e di immaginari, è la presunzione umile di chi punta in alto, perché altrimenti non ti metteresti a perdere mesi contando che dei tuoi simili spendano per vedere quasi due ore partorite dalla tua fantasia. E’ anche quello sguardo finale che ci dice che vorrebbe esserci un sequel (e speriamo. Ma non siate curiosi, non andate su Wikipedia: quei supercattivi vi SPOILERANO tutto dall’inizio alla fine). Lo chiamavano Jeeg Robot mette un punto: un altro cinema, oltre gli autori autoreferenziali e opere strappabiglietti senz’anima, è possibile. Anzi, è obbligatorio.