L’orrore nelle storie dei “pentiti” dell’Isis

Iniziano a parlare i pentiti dell’Isis: combattenti che si erano affiliati allo Stato Islamico, che avevano fatto il viaggio verso la Siria e l’Iraq, pronti a partecipare al sogno del califfo Al-Baghdadi, ma poi rimasti “delusi” dal clima che si respira nelle zone controllate dal Daesh, dalla bandiera nera della rivoluzione islamica. E fuggiti: per i terroristi dell’Isis, sono “apostati”; per i governi, potrebbero diventare una fonte di importantissime informazioni.

INIZIANO A PARLARE I PENTITI DELL’ISIS

E’ il New York Times a raccontare “il disincanto” degli ex-affiliati allo Stato Islamico della Siria e dell’Iraq del Levante.

Alcuni dei pentiti affermano di disapprovare l’ostilità dello Stato Islamico verso tutti gli altri gruppi sunniti che si rivoltano contro il presidente Bashar Al Assad in Siria, e le uccisioni indiscriminate di civili e di ostaggi. Per altri il problema erano i favoritismi e i maltrattamenti dei comandanti, o la delusione della vita da militanti, che risultava essere molto meno eccitante, o conveniente, di quanto immaginassero. Due di loro hanno lasciato dopo essere stati scelti come attentatori suicidi.

Dunque la vita nello Stato Islamico – prevedibilmente, ci permettiamo di dire – non è poi rose e fiori come la propaganda dell’Isis vuole far credere ai mussulmani e ai potenziali adepti di tutto il pianeta. I numeri, d’altra parte, sono molto importanti: circa 20mila combattenti, un quarto di essi europei, si sono uniti ai ranghi dello Stato Islamico negli ultimi due anni; “fra il 25 e il 40% di essi sono già tornati in Europa”, continua il NYT.

LEGGI ANCHE: “Ecco perché combattevo nell’Isis

Le storie di chi vuole tornare dalla Siria sono storie di paura. “L’Isis vuole uccidere chiunque dica di no. Tutti devono essere con loro. Pensavo tutto il tempo: se mi arrestano, se mi fermano, mi taglieranno la testa”, dice un pentito 26enne che ha pagato un trafficante per portarlo in Turchia. Un altro combattente, Ibrahim, afferma di essersi unito all’Isis “per dare assistenza umanitaria ai siriani e avere una possibilità di vivere sotto il califfato e la legge islamica”. Ma “non tutto nello Stato Islamico è fatto di parate militari e vittorie”, continua l’ex combattente che, dice, afferma di aver trovato giusta “la lapidazione di una coppia per adulterio, ma di non approvare la decapitazione dei cooperanti, dei giornalisti, dei civili”. Secondo il King’s College di London, che ha un centro studi appositamente dedicato, bisognerebbe iniziare a tenere in gran conto i racconti degli “apostati dello Stato Islamico”.

Molti parlano nella speranza di ricevere trattamenti più favorevoli dalle accuse e dai giudici. Peter Neumann, direttore del Centro Internazionale per gli studi sui movimenti radicali, afferma: “Se sei un governo, hai tutto l’interesse a far sì che molti escano allo scoperto”, per creare un incentivo, un traino, per altri. I testimoni, afferma, possono essere usati per contrastare i metodi dello Stato Islamico, e ha chiesto ai governi di “rimuovere tutti i disincentivi legali” che spingono i pentiti a non parlare in pubblico.

I delusi dall’Isis affermano: una volta aver visto con mano di cosa si tratta, “non è più qualcosa per cui vale la pena restare”. “Non è quello che vediamo sui video su Youtube”. Eh, no.

Copertina: Getty Images

 

Share this article
TAGS