Mafia a Roma, Magi (Radicali): «Serve discontinuità. E basta affidamenti diretti»
06/12/2014 di Alberto Sofia
Per il presidente dei Radicali Riccardo Magi, consigliere dell’Assemblea capitolina della (civica) “Lista Marino” eletto nuovo segretario d’Aula, Roma, sconvolta dall’inchiesta “Mafia capitale“, può ancora ripartire, puntando sulla “discontinuità“: «Questa è un’occasione di riforma che va colta. Serve una riforma di sistema, che affronti anche il tema della legge elettorale e delle preferenze». Intervistato da Giornalettismo, Magi ha spiegato di non esser rimasto particolarmente sorpreso da quanto sta emergendo. Era chiaro, per il radicale, che ci fosse “una questione di legalità” da affrontare. Per questo ha ricordato di aver più volte denunciato possibili irregolarità, trovando però troppo spesso soltanto silenzi e scarsa trasparenza come risposta.
Consigliere Magi, un anno fa denunciava una “manovra d’aula” per la spartizione di risorse pubbliche, scontrandosi con la maggioranza. Oggi come commenta quanto sta emergendo sulla “cupola romana”?
«Per quella denuncia ho subito un isolamento politico. Oggi non mi stupisce quanto sta affiorando dall’inchiesta. Bastava guardare bilanci e affidamenti per capire che c’era una grossa questione di legalità. Abbiamo fatto come Radicali denunce a tutti i livelli: alla procura della Repubblica, a quella della Corte dei Conti, all’Autorità Anticorruzione, persino alla Commissione europea su questioni che vanno dall’affidamento dei servizi, allo smaltimento dei rifiuti, alle grandi opere. In seguito al nostro esposto sulla metro C la Corte dei conti ha contestato 360 milioni di euro di danno erariale per la prima tratta e lo stesso Raffaele Cantone ha fatto rapporto al procuratore Pignatone.
Perché ha definito Roma come un “sistema di clientele trasversali”?
Il reato associativo parla di un sistema rodato e collaudato, trasversale tra gli schieramenti politici, che ha attraversato nel tempo amministrazioni di vario colore. La questione della “manovra d’aula” è solo uno degli aspetti. Se si guardano i maxi-emendamenti fatti agli ultimi bilanci spesso venivano aggiunti fondi al sociale e alla manutenzione del verde, guarda caso due settori – come sta emergendo dalle carte, ndr – sul quale aveva messo gli occhi la “cupola”. Chiaramente nessuno si opponeva al fatto che venissero messi più fondi per il sociale. Ma il passaggio successivo è vedere come queste risorse vengono affidate. Un esempio? Basta analizzare il sistema dei centri d’accoglienza e dei campi rom. Nel 2013, un anno a metà tra le due amministrazioni (Alemanno e Marino, ndr), Roma ha speso più di 25 milioni di euro, come emerge dal lavoro dell’associazione 21 luglio. Una stima al ribasso, anche perché sono soltanto quelli documentati. Mi sembra già assurdo che un rapporto di questo tipo debba farlo un’associazione esterna all’amministrazione. Dovrebbe essere il Comune a garantire la trasparenza sull’utilizzo dei fondi pubblici, così come la misurazione dei risultati dei servizi offerti. Invece di molte strutture e finanziamenti non si ha alcuna notizia».
Intanto la “cupola” ha trasformato in un business il settore dell’accoglienza ai migranti…
«Da domenica sono in sciopero della fame per chiedere al sindaco la chiusura del centro di accoglienza “Best House Rom” di Via Visso sulla Tiburtina, il più illegale e costoso di Roma. Ci sono più di 300 persone che vivono in un “magazzino”, senza condizioni minime di abitabilità, stipate in stanzette senza finestre. Più della metà delle persone sono minori. Non ci sono percorsi d’inclusione sociale, non ci sono veri servizi sociali. Dovrebbe essere una struttura temporanea, in realtà molte persone sono presenti dalla metà del 2012. Fu aperto sotto la giunta Alemanno, quando a capo del dipartimento c’era Angelo Scozzafava (tra gli indagati nell’inchiesta, ndr). Per questa situazione il Comune di Roma spende 600 euro al mese a persona. Quindi, per un nucleo familiare di 5 persone sono 3mila euro. Tutto con affidamento diretto, con la scusa dell’emergenza, magari perché serve trovare un posto dopo uno sgombero da un accampamento abusivo. Qui emerge in modo chiaro come si sia lucrato sulla questione Rom, di cui nessuno si vuole occupare. E che è diventata un business»
L’associazione 21 luglio denunciava la percentuale molto elevata degli affidamenti diretti per gli interventi sui campi nomadi. Ritiene che la deroga al principio della gara pubblica per le cooperative sociali sia da rivedere?
«Assolutamente da rivedere. Inaccettabile l’affidamento diretto, soprattutto quando noi parliamo di somme che superano il milione di euro l’anno. Io abolirei anche per le cooperative sociali la possibilità di fare affidamenti diretti. Senza dimenticare che qui poi si parla in realtà di holding, di fatto, come la “29 giugno” di Salvatore Buzzi (uno dei due principali accusati, insieme al “Nero” Massimo Carminati, ndr). Non certo piccole società cooperative in cui i dipendenti si sono messi assieme per dare un servizio. E sottolineo che spesso c’è anche una forte precarizzazione dei dipendenti, con personale poco o per nulla formato per questi servizi. In pratica, a 360 gradi, non c’è alcun dato virtuoso»
Che sistema è quello delle cooperative sociali nella Capitale? Ritiene che quanto emerso nell’affaire “29 giugno” di Salvatore Buzzi sia soltanto un caso isolato o che ci siano molte altre ombre?
«C’è un dato di sistema. Basta guardare il già citato sistema dei campi rom. La “29 giugno” serve qualche campo, come quello di Castelromano, in altri fa servizi di bonifica ambientale o di pulizia. Ma è la stragrande maggioranza degli altri soggetti, enti gestori o che forniscono servizi che lavorano con affidamenti diretti. E va detto che c’è una responsabilità degli alti livelli dell’amministrazione, oltre che della politica. Perché tutte le determine dirigenziali con cui si affidano questi servizi sono firmate dai direttori dei dipartimenti. Bisogna andare a fondo. Serve una rotazione sull’operato dei dipartimenti. Lì c’è una continuità dei dirigenti, che va al di là della politica e di chi vince le elezioni».
Quali provvedimenti andrebbero presi per scardinare questo sistema corrotto? Basta la vigilanza di Cantone sugli appalti sospetti?
«Prima dell’intervento di Cantone e dell’Anac, a questo punto auspicato, è l’istituzione che deve controllare. Ho fatto la stessa interrogazione a quattro diversi assessorati (Politiche abitative, sociali, lavori pubblici e scuola), ovvero a quelli che affidano servizi. Questo per sapere quali erano gli appalti che avevano assegnato in modo diretto e in modo illegittimo. O con proroghe automatiche d’affidamento, che violano il codice degli appalti e le regole comunitarie sulla concorrenza, dato che bisognerebbe fare una gara. Non ho ricevuto risposta, quindi mi sono astenuto sull’ultimo assestamento di bilancio»
E la discontinuità promessa da Marino?
«Da quanto sta emergendo c’è stato qualcosa che ha frenato all’interno dell’amministrazione, dato che questo sistema di malaffare, che aveva fatto affari nella scorsa consiliatura, era pronto a trovare nuovi interlocutori politici. Errori della nuova amministrazione? Per le cose automatiche prorogate, o per inerzia dei vertici dei dipartimenti, o per mancata vigilanza. Chiaro che questo sistema così consolidato ha avuto un suo ruolo. Ora è l’ultima possibilità di voltare pagina, non ci sono più alibi. Serve una rivoluzione di legalità e trasparenza»
Invece il M5S continua a insistere sul commissariamento. Lei cosa ne pensa?
«Non sono favorevole, a mio avviso ci sono degli elementi di sistema da risolvere. Certo, bisognerà analizzare cosa emergerà e vedere quanto sarà estesa questa inchiesta. E altri organi istituzionali devono fare le loro scelte, come prefettura e governo. Ma io sono convinto ci siano i margini per una svolta. Ma non basta l’indignazione, questo è un fatto che ha rilevanza nazionale. Serve una riforma di sistema, che non può che portarci a riflettere sul sistema elettorale e sul nodo delle preferenze»
Come Radicali le considerate un sistema sbagliato. Quale soluzione proponete?
«Le preferenze rappresentano un sistema feudale, che ha reso alcuni consiglieri negli anni dei “signori di un territorio” o di un ambito di attività. Da quest’inchiesta emerge di più: è legato il nodo del finanziamento illecito alla politica. Chi sfruttando le clientele riesce a attingere a risorse per fare campagne elettorali che superano i 100mila euro, falsa la competizione democratica. Mi chiedo come faccia un consigliere comunale che guadagna intorno ai 1600 euro al massimo, a spendere cifre da 100 ai 50 mila euro per campagna elettorale. L’unica garanzia è andare verso il sistema dei collegi uninominali. All’inizio degli anni Novanta, grazie ai referendum dei Radicali, l’80 per cento degli italiani indicò questo sistema come via d’uscita da Tangentopoli. Ma l’aspirazione uninominale fu soffocata da un sistema elettorale ibrido e confuso. Oggi c’è chi dice: “Meglio le preferenze che il sistema bloccato”. Ma bisogna ricordare perché furono tolte. Quello è un sistema che favorisce il sistema clientelare e certe infiltrazioni nel sistema della politica»