Massimo Troisi: 22 anni fa la morte del genio gentile di Napoli

“Non so cosa teneva “dint’a capa”,

intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
arte di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!”
era come parlare col Vesuvio, era come ascoltare del buon Jazz.
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Holliwood!
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro”

 

Le vie del signore sono finite_fotografie realizzate da Mario Tursi-tratte dall'archivio fotografico MARIO TURSI FOTO

 

Una poesia. Una lettera d’amore e d’addio. Tutti la ricordiamo letta da un Arbore attento, concentrato, infine commosso. Ma ostinato a finirla. Accanto a lui Roberto Benigni, per una volta triste e composto, imbarazzato dal sentirsi declamato dall’amico e in fondo mentore (al cinema, Renzo, ha diretto Roberto, prima che quest’ultimo potesse solo immaginare di arrivare all’Oscar). Poi il piccolo diavolo si alza, cercando di distogliere l’attenzione dall’amico in lotta con le lacrime, e dedica l’applauso che gli viene tributato al sodale Massimo Troisi. Fa quasi una piroetta, ma non è il solito giullare, è un uomo a cui hanno strappato il compagno di giochi.

Massimo Troisi, da Pertini a Andreotti

Non ci resta che piangere, anche a 22 anni di distanza, l’assenza dell’attore e regista che ha rivoluzionato la tv, il cinema, quel tipo di melodramma comico che forse, in fondo, ha inventato lui. Quel modo di essere sociale e politico – il monologo contro Pertini (in Che fai Ridi? su una rete del servizio pubblico), vestito da tecnico Rai, sui soldi del Belice; il tormentone sull’emigrante di Ricomincio da tre (1981); il grande rifiuto, da esordiente, alla Rai e a Sanremo che non volevano farlo parlare della sua Napoli terremotata, in tutti i sensi – si univa regolarmente alla capacità di scandagliare i sentimenti, le fragilità, le contraddizioni dell’uomo. Lo si è intuito nella puntata del 2 giugno, su RaiDue, di Unici, dedicata a lui, si può riscoprire su RaiTre, il 4 giugno, alle 23.10, con Massimo, il mio cinema secondo me, bel documentario di Raffaele Verzillo già presentato all’ultimo Festival di Roma.
Sapeva far ridere senza la scorciatoia della battuta fulminante: no, in lui, così pigro, c’era la capacità di portarti sempre in un altro luogo, in cui per minuti valevano le sue regole. Con lui l’orgasmo comico era delicato e prolungato: ridevi per minuti, non per pochi secondi.
Gli credevi se ammetteva di non credere allo scudetto del Napoli una settimana dopo la conquista del primo tricolore da parte degli azzurri, così come ti disarmava se dava a Giulio Andreotti dell’ingenuo. Mentre tutti lo chiamavano Belzebù, lui lo demoliva destrutturando il mito: “non si accorge di nulla: servizi deviati, stragi di stato, misteri. Come si dice a Napoli, è troppo buono, è fesso. Non come mio padre che si accorge di tutto, pure dell’unica fidanzatina che portai a casa. Ci penso spesso: quanto si sarà divertito il figlio di Andreotti?”. Pippo Baudo, che lo intervistava, lo avremmo visto così teso solo quando Beppe Grillo gli fece l’agguato sui socialisti in Cina. Ma con l’allora comico e ora faro del M5S fece in tempo a dissociarsi, con Massimo era impossibile. Troppo elegante, troppo intelligente, troppo perfetto il suo percorso comico, tra sillogismi scaltri e raffinati rovesciamenti di visuale, perché potesse essere attaccato o smentito.
Per questo non smisero di guardarlo al nord quando commentò lo striscione sul Napoli scudettato, esposto in una città dell’Italia settentrionale: “Siete i campioni del Nord Africa”. Eppure li apostrofò, con quel suo sorriso un po’ furbo e molto tenero, con un feroce “meglio essere campioni del Nord Africa che fare striscioni da Sud Africa”. Che allora, ricordiamolo, teneva ancora in piedi l’apartheid.

Massimo Troisi, tra amarcord e attualità

Ognuno ha le sue dieci battute preferite. Ognuno dovrebbe giocare a ricordarle. Solo così si sentirebbe la nostaglia struggente per chi, se fosse sopravvissuto al suo cuore debole e rumoroso (la sua valvola cardiaca, portata sempre con nonchalance, si sentiva nitidamente: tutti, amici e sodali, ricordano quel ticchettio ossessivo), forse avrebbe surclassato ogni altro artista italiano, diventando un Woody Allen europeo. Ma gli si fa un torto a ingabbiarlo in un’etichetta: Ricomincio da tre, Scusate il ritardo (1983), Non ci resta che piangere (1984) (forse il momento più alto dei protagonisti, Benigni e Troisi), Le vie del signore sono finite (sottovalutato, ma bellissimo) non sono solo titoli di una cinematografia senza cadute, ma son diventati modi di dire. Troisi è entrato nell’immaginario di tutti, senza compromettersi con il pubblico. Non ha mai fatto concessioni al gusto altrui, si è sempre proposto, dalla parlata alla gestualità, dai ritmi lenti ma inesorabili agli argomenti, nella sua identità unica e irripetibile. Forse per questo nessuno gli resisteva. La scena a letto con Giuliana De Sio, su un Napoli-Cesena ormai mitico, così come quella con Fiorenza Marchegiani sul nome Ugo, erano momenti suoi. Se li rifacesse chiunque altro, apparirebbero insipidi e deboli. Lui li riempiva di senso e divertimento. E inevitabilmente diventavano anche nostri. Lui è stato il primo a capire che non solo il personale fosse universale, ma che l’intimità poteva essere e diventare politica. Persino in Pensavo fosse amore invece era un calesse (1991), storia d’amore quasi ordinaria – ma retta da una poesia, anche canora, eccezionale – che era però anche una lente su un interclassismo moderno che cercava di reinterpretarsi.

Massimo Troisi, l’addio

Per non parlare infine della sua consacrazione, Il Postino (1994), in cui per fatica e pudore rinunciò al ruolo del regista, restituitogli da Michael Radford post mortem. Si concede, lì, persino quella retorica mai neanche sfiorata in passato: sa, dopo Houston e l’intervento che lo salva per poco e di fatto lo condanna, di avere i mesi contati. Arriverà agli albori dell’estate, il 4 giugno 1994, poi si arrenderà. Stanchissimo. Lasciando più orfani di quelli che avrebbe, e forse avremmo immaginato. Come ha detto Carlo Verdone, Massimo “nascondeva il suo talento”. E così tutti lo hanno, lo abbiamo sottovalutato. Era un genio naturale, di quelli che, come il suo amico Diego Maradona, sapeva rendere facile l’impossibile. Lo abbiamo scoperto in questi anni, in cui un suo erede è lontano da venire e in cui il suo modo di vedere il mondo è totalmente assente.

E Napoli, odiata dal resto d’Italia, lamenta la mancanza di quell’esempio di partenopeo fiero ed elegante, intelligente e raffinato, divertente e irresistibile.

A unire il paese, in passato, erano proprio talenti come Massimo Troisi.

(Photocredits: Mario Tursi – tratte dall’archivio fotografico MARIO TURSI FOTO)

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