Menichini e i soldi pubblici ai giornali

La strada che porta a un sistema nel quale la carta e l’edicola siano presidio residuale (ma certificazione di qualità e solidità) è tracciata, ineludibile. Da solo però nessuno di noi piccoli può percorrerla, moriremmo tutti nella transizione perché nasciamo con altre strutture, altri pesi, sostenibili (e a stento) solo con i ricavi della diffusione. Certo, la pubblicità cresce a vista d’occhio sulla rete ma seguendo le stesse implacabili regole che hanno consentito ai grandi giornali di drogare la concorrenza e schiacciarci tutti, uno dopo l’altro, nel mercato tradizionale.

E anche questa considerazione di Menichini merita una giusta discussione. Proviamo a porre il problema a uno studente d’economia del primo anno, uno che è ancora alle prese con i grafici di domanda e offerta. “Secondo te, caro studente, se sul mercato italiano ci sono
a) da una parte giornali che devono campare con un numero X di aiuti all’editoria, e per il resto con le vendite e gli inserzionisti
b) dall’altra parte, giornali che oltre agli aiuti all’editoria, beneficiano di un contributo statale che arriva al 60% del totale del fatturato
chi è che sta drogando il mercato, i primi o i secondi?”. E secondo voi?

Si sa che sopravviviamo per il sostegno pubblico: come usarlo per la riconversione è il tema di oggi e dell’immediato futuro. Non credo che la massa dei moralizzatori con i loro opinion leader se ne renda conto, ma la campagna contro i contributi pubblici all’editoria politica, cooperativa e di partito è il frutto più avvelenato – a me talvolta pare perfino l’unico – di quell’odioso neoliberismo selvaggio che in altri campi porta le medesime persone a sfilare indignate nelle piazze. «Se non sai vivere nel mercato, è giusto che tu muoia» è la frase che mi sento rivolgere sempre, da gente che non si permetterebbe mai di parlare così a un minatore del Sulcis, a un metalmeccanico di Termini Imerese, a un panettiere di Milano, a un orchestrale dell’Opera di Roma, a un attore del Valle. Siamo in tanti fuori dal mercato, forse ci siamo tutti, voglio dire tutti gli italiani: vogliamo morire abbracciati? Può disprezzare tanto il valore della produzione intellettuale, giudicandola non meritevole di tutela né di sostegno, chi magari in altra sede si straccia le vesti per il degrado culturale del paese (sempre colpa di qualcun altro)? E dove possono trovare spazio i precari da tre euro al pezzo, formarsi nuove professionalità, competenze e intelligenze, se su piazza rimangono solo i colossi?

L’argomento del presunto liberismo selvaggio, siamo sicuri che il romanaccio Menichini apprezzerà la citazione, è la più grossa stronzata mai sentita da quando l’uomo inventò il cavallo. In primo luogo perché è un voler etichettare ideologicamente quello che invece appare un assurdo a qualunque persona dotata di senso comune. La libertà di parola non è in discussione, ma perché per la libertà di parola di Ferrara e Lavitola e qualcun altro deve pagare il cittadino comune a cui magari non interessa nemmeno dell’esistenza in vita dei vari Ferrara e Lavitola? Dice la dottrina che la libertà di espressione si basa sulla libera disposizione dei mezzi che si hanno. Non di quelli che non si hanno: se qualcuno andasse alla Rai per interrompere La prova del cuoco allo scopo di dire qualcosa di importantissimo, chiamerebbero la Croce Verde. Invece qui c’è qualcuno che pretende di essere pagato. Ciò che deve garantire lo stato è l’assenza di monopoli, non deve imporre il pluralismo per legge. Ma facciamo finta che le preoccupazioni di Menichini a proposito di Termini Imerese siano valide; anche qui c’è un uovo di Colombo: togliamo i finanziamenti pubblici all’editoria e usiamo quei soldi per aiutare tutte le categorie in difficoltà. Anche se il conto finale dovesse fare 10 euro a testa, sarebbero comunque soldi meglio spesi che farli bruciare così. No? (Si tace, per carità di patria, sulla questione che i giornali con finanziamenti pubblici aiutano i precari da tre euro a pezzo: forse sul punto Menichini dovrebbe chiedere a quelli che aspettano sei mesi per riceverli, e coloro che non li ricevono per niente, i tre euro al pezzo, proprio dai giornali che il direttore di Europa sta difendendo). Infine, dice Menichini:

Si fa l’esempio – notevole ma peculiare – del Fatto, che è nato e prospera solo sulle proprie forze. Ma dal direttore in giù, quasi tutti coloro che ne fanno il successo sono cresciuti dentro piccola, grande o grandissima editoria sovvenzionata. Europa per esempio, piccolo luogo del giornalismo e della politica, negli anni ha anche formato giovani capaci, ha dato loro buona occupazione, in definitiva ha creato valore, anche se non utili per gli editori: era meglio che non fosse successo? La gramigna da scacciare sono gli abusi, l’assistenzialismo, l’ingrassamento indiretto della politica.

Con queste frasi, viene voglia di non continuare a leggere. Un po’ perché è evidentemente falso che Gomez, Lillo, Travaglio e tanti altri del Fatto siano cresciuti con la stampa sussidiata. Ma il ridicolo di questa legge è che ha permesso non solo ai partiti, non solo ai partiti inventati, ma anche alle correnti di partito di ricevere finanziamenti pubblici, invece di razionalizzare le forze e non gravare sul bilancio dello Stato. E’ vero che l’Unità di Padellaro riceveva finanziamenti pubblici, ma l’abuso, l’assistenzialismo, l’ingrassamento indiretto della politica è proprio ciò che porta, ad esempio, il quotidiano Europa in edicola in quanto giornale di area Pd nonostante in edicola, e sempre con soldi pubblici, ce ne sia già un altro, di giornale di area Pd (ovvero l’Unità). Tutto questo non è gramigna e assistenzialismo? Con tutta la stima per il lavoro e le capacità (indubbie) di Menichini, è questa la domanda a cui bisognerebbe rispondere chiaramente e sinceramente.

Share this article