Mia Madre, Nanni Moretti ci fa sentire nudi (e inadeguati) alla meta – RECENSIONE
20/04/2015 di Boris Sollazzo
MIA MADRE DI NANNI MORETTI LA RECENSIONE –
In fondo Nanni Moretti è sempre stato un poeta dell’inadeguatezza. In gioventù cantava, quasi in commedia, i difetti del suo piccolo mondo antico di sinistra, le sue difficoltà di giovane intellettuale diverso eppure presto considerato organico.
Lui, che aveva strappato violentemente con i Monicelli, da cui ereditava più di quanto volesse ammettere, e con quella sinistra che si apprestava a diventare radical chic, era diventato con il suo Apicella, lo scomodo grillo parlante di un consesso ipocrita e sempre con la verità in tasca.
Non negando mai di far parte di quel circo borghese, ma dicendo a tutti che ne vedeva, in controluce, tutte le contraddizioni. Le proprie comprese. Ed è proprio di questa onestà intellettuale, sentimentale, culturale che ha fatto innamorare il suo pubblico, più vasto e variegato di quello che lui stesso creda.
“Anche in una società più decente io starei sempre con una minoranza di persone” dice, scendendo dal motorino, a un Giulio Base fermo al semaforo dentro la sua macchina sportiva, in Caro Diario. Una dichiarazione politica e umana, di inadeguatezza. Spesso scambiata per snobistica superiorità.
Ora che la politica è lontana dal cuore e della mente morettiani, tutto ciò è più evidente e lui si conferma sempre più il cantore di una generazione. Quella che ha capito prima di altre che i genitori che hanno vissuto la guerra avevano decisamente più ragione dei fratelli maggiori che hanno giocato a farla, per poi spartirsi il bottino di un finto conflitto. Che la meglio gioventù è una bugia, forse avallata proprio da chi come lui li ha presi in giro, ma non ha saputo e voluto sconfiggerli.
Forse perché neanche doveva. E allora se Habemus Papam questa incapacità di assolvere a un compito che si considera, appunto, dovuto, la fa assurgere a mostro inesorabile e cannibale, a cui arrendersi, Mia madre è la riflessione intima, tenera, ineluttabile di figli che non si rassegnano a smettere di essere tali. A registi che non sanno più raccontare il proprio paese. A fratelli maggiori che sono più fragili di quel ruolo di piccoli padri che si sono dati.
MIA MADRE, NANNI MORETTI E IL DOLORE –
Come ne La stanza del figlio, il regista ci porta in un viaggio familiare dentro quel dolore che tutti conosciamo, ma che solo lui forse sa offrirci nella sua nudità. Ci si sente accompagnati e allo stesso tempo violati quando il buon Nanni ci porta in quegli interstizi dolenti e indolenti in cui si insinuano le nostre fragilità. Margherita Buy e il cineasta stesso interpretano i figli di Ada (Giulia Lazzarini, brava e struggente), professoressa di scuola e di vita, gentile, magnifica e ingombrante presenza. Lei sa.
Loro no. Margherita, la figlia, è una regista “fuori tempo” come quella fila al Capranichetta, nostalgica e sognante, ed è alle prese con un divo capriccioso – a sua volta custode di una mancanza che non vuole ammettere – un John Turturro a cui è affidata la leggerezza del film, il coté di commedia in cui Moretti è tanto sottovalutato quanto capace, Giovanni è un ingegnere che appare solido e forte, ma che cela in un’aspettativa dal lavoro di ingegnere presa all’improvviso un abisso. Affrontato con un sorriso malinconico.
E’ naturale che un genitore ci abbandoni. E’ naturale che noi ne soffriremo, sempre, con un’intensità devastante, perché l’immortalità che consegniamo loro è totale, irrazionale, inevitabile. Solo Moretti può raccontarci quel viaggio verso l’ignoto, solo lui può aprirci una parte di sé.
Agata, la madre di Moretti, mancata nel 2010 ad 89 anni, è da sempre una figura mitica: dai suoi ex alunni che ne hanno decretato la figura di leggenda capitolina per la bravura come insegnante e madre putativa al figlio, c’è una sottotrama della carriera e del racconto sul – e del – cineasta che la coinvolge, tanto che il suo cognome, Apicella, è stato parte integrante della cinematografia morettiana, affidato al mitico alter ego di Nanni.
L’ingenuità patetica e retorica che a volte, nei momenti cruciali, ci prende, ce la mostra spudoratamente il regista, così come quelle incomprensioni con il resto del mondo “che non ci capisce”. La semplicità di un quotidiano che sta andando in mille pezzi per ricostruirsi su un’assenza, ingombrante quanto la presenza precedente, ci schiaffeggia in pieno viso, a ogni scena. Questo è Mia madre. Durante il film ridi, sorridi, ti commuovi, provi dolore e empatia. Ti senti vicino a quei ragazzi invecchiati, a quei figli indifesi. Dopo capisci che l’autore è entrato, troppo, dentro di te.
Come ha fatto con quella donna e quell’uomo. Il loro successo non li ha protetti, la realizzazione all’esterno della famiglia li ha resi solo più isolati, non sono più adulti di decenni prima, neanche l’esperienza li difende. E’ dolce il sorriso della Buy di fronte agli ex alunni della mamma, di cui forse è un po’ gelosa, così come la condiscendenza di Moretti che prova a sembrar in grado di reggere ogni urto della vita. Ma si è già sgretolato e, forse, la sua bravura è semplicemente accettarlo.
Il sottotesto metacinematografico, quel film laburista a cui assistiamo, diretto da Margherita (o subìto, essendo una sbarra della prigione dorata che si è creata per proteggersi inutilmente da tutti), è un pretesto per raccontare l’inadeguatezza di chi, la sua arte, forse non la vuole usare più per mostrare un mondo sempre più sconfitto, banale, scontato nel dividersi tra vincenti e perdenti.
Serve però a ricordarci che ci sono bravi attori che Moretti sa ancora scegliere tra quelli sottoutilizzati, ingiustamente, da Pietro Ragusa a Anna Bellato, passando per Francesco Brandi e l’istrionico Tony Laudadio, di quegli interpreti a cui bastano poche pose per mettere la loro firma, per rendere un film più prezioso.
NANNI MORETTI, MIA MADRE, USCITA IN SALA IL 16 APRILE –
E allora è inevitabile gioire per l’uscita, il 16 aprile, del dodicesimo film di Nanni Moretti. A 62 anni, dopo almeno un paio di svolte nella sua poetica, è un regista più vitale che mai. Coerente nel non cercare estetismi inutili – tecnicamente non è mai stato un cineasta virtuoso, e aggiungiamo “per fortuna” – ma nel provare a trovare il centro di gravità suo e dello spettatore, di interpretarne il presente rendendolo universale, ma allo stesso tempo infischiandosene di etichette, che non siano le sue.
Sembra più libero, senza politica, più creativo e di nuovo (molto) divertente. In due parole, appare ringiovanito. Nel raccontare e raccontarsi. Non ce ne vogliano Arnaldo Catinari, che pure fa un gran lavoro con una fotografia decisa e pure piena di sfumature, né Paola Bizzarri per quelle scenografie che sembrano tavole di una grande graphic novel.
Questo è un film di Nanni Moretti, che però a differenza di come lo sfotteva Dino Risi, non si mette più davanti ai suoi film. Li conduce, rimanendone ai margini, con questi splendidi personaggi di contorno che con uno sguardo, magari, indicando la direzione. E ammettono, finalmente, la loro inadeguatezza. La sua, la nostra.