Gli scafisti italiani in affari con i criminali tunisini
18/09/2017 di Redazione
A partecipare al business del traffico di uomini nel Mediterraneo, dalle coste libiche a quelle siciliane, sono anche scafisti italiani. E i migranti li considerano anche «una garanzia», perché «con loro non rischi di affondare in mezzo al mare». È quanto emerge dal racconto di Siri, un 40enne tunisino che dopo la Primavera Araba ha deciso di mettersi in viaggio per lavorare nel nostro Paese, dove aveva già vissuto negli anni ’90 e dove è giunto dopo un viaggio notturno. La sua testimonianza viene riportata oggi da Repubblica in un articolo a firma di Fabio Tonacci:
Gli scafisti italiani puntano sulla qualità. «Il gommone è nuovo, dentro è fatto di legno e ha un motore potente». Gli scafisti italiani viaggiano con un coltello lungo un braccio, e si sono messi in affari con criminali tunisini a cui non frega niente di chi portano in Sicilia. «Se fossi un jihadista», osserva Sari, involontariamente lanciando un monito a chi si occupa di Antiterrorismo, «userei questa rotta per penetrare in Europa».
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SCAFISTI ITALIANI LUNGO LA ROTTA DEI MIGRANTI TUNISINA, IL RACCONTO DI SARI
Sari racconta di essere stato avvisato su italiani che facevano le traversate fino in Sicilia con i motoscafi, lungo la vecchia rotta tunisina seguita da contrabbandieri di sigarette e latitanti in fuga. Negli anni si è poi trasformata anche in rotta di migranti irregolari:
«Trovo il contatto giusto, un mio connazionale che mi spiega come funziona: il viaggio costa 7.000 dinari (circa 2.400 euro, ndr) e i soldi li vogliono in anticipo. Se accetto, entro una settimana riceverò una telefonata e da quel momento avrò un’ora di tempo per presentarmi in un luogo prestabilito dove incontrerò l’italiano. Di lui non mi viene spiegato niente, solo che è un siciliano di poche parole».
E l’italiano è colui che guida il gommone. Davanti a sé durante il viaggio, ricorda Sari, aveva una borsa frigo di plastica blu che non conteneva solo bevande: insieme alle bottiglie d’acqua c’era un grosso coltello, forse un machete. L’imbarcazione accelerava e rallentava di continuamente. Con l’italiano a pilotare che si orientava «seguendo tre stelle». Lo scafista parla il dialetto siciliano, gli otto passeggeri erano in silenzio, e non sembrava passare mai il tempo durante il viaggio notturno:
«All’alba scopriamo che c’è una nave militare in lontananza, e per fortuna non ci avvista. L’italiano appoggia sulla borsa frigo una tavoletta di legno, con una bussola: l’ago punta tra i 58 e i 59 gradi. Il motore spinge al massimo, arriviamo nelle acque italiane che sono le 17, ma non attracchiamo: rimaniamo a largo, a motore spento, fino a dopo il tramonto. Con l’oscurità appaiono le luci delle automobili, sbarchiamo su una spiaggia dove ci sono delle persone. In un attimo i due scafisti riprendono il mare, io mi incammino solo tra gli alberi. Dopo qualche ora ho capito dov’ero: a nord di una città chiamata Marsala. In Italia. In Europa».
(Foto: ANSA / ETTORE FERRARI)