“Montalbano sono”: la Sicilia di luoghi, personaggi e ricette senza tempo
19/02/2015 di Alessandra Rey
“Se mentre mangi con gusto non hai allato a tia una pirsona che mangia con pari gusto allora il piaciri del mangiare è come offuscato, diminuito”
Montalbano è, prima di ogni altra cosa, condivisione.
Proprio come il cibo, un po’ come tutte le altre gioie che valga la pena vivere e gustare in compagnia.
All’apparenza semplicemente burbero, solitario ed impaziente, è invece un protagonista complesso le cui diverse sfaccettature vengono fuori proprio grazie ai personaggi con cui si relaziona, interagisce e condivide, per l’appunto.
E così, pagina dopo pagina, puntata dopo puntata, si scopre essere integerrimo, fortemente legato ai suoi collaboratori, amante del buon cibo.
È autorevole Montalbano, uomo di pensiero e non di azione, abitudinario uomo senza fretta e senza tempo.
Motivo del suo successo è proprio l’apparente immobilità, l’essere perfetto nella sua costante immutabilità: il commissario è sempre uguale a se stesso, pur evolvendosi senza annoiare mai.
Stessa casa di Marinella con quella sua terrazza che si apre sul mare, stesso commissariato di Vigata, stesso ristorante dove pranzare con regale dedizione, stessa spiaggia da cui partire a nuoto per ritrovarsi: luoghi immaginari di una Sicilia mai così reale, vivida e profumata.
Una terra autentica, in parte ancora incontaminata, con paesaggi meravigliosi che non fanno solo da sfondo alle vicissitudini del commissario ma che si inseriscono, silenziosamente, nella storia stessa e nei suoi personaggi.
La Sicilia, aspra come le sue pareti di roccia a picco sul mare, come quei suoi limoni gialli e succosi, elegantemente barocca, colorata di blu intenso, oro e verde brillante, dal profumo vivo di mandorli e sale.
Sapori genuini, capaci di sopravvivere integri nel tempo, fedeli a se stessi, ai conoscitori appassionati ed agli instancabili detrattori.
Un po’ come accade per Salvo Montalbano e la millenaria ricetta senza tempo di uno dei suoi piatti preferiti: gli Arancini.
Il Camilleri pensiero, cui dà voce il commissario nel racconto “Gli arancini di Montalbano”, recita come segue.
“Gesù, gli arancini di Adelina! Li aveva assaggiati solo una volta: un ricordo che sicuramente gli era trasùto nel Dna, nel patrimonio genetico. Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!”