Morto Francesco Rosi, l’uomo contro del cinema italiano
10/01/2015 di Boris Sollazzo
Non aveva un buon carattere, Francesco Rosi. Era gentile, ma di quella gentilezza ruvida di chi non ha tempo da perdere. Anche se con quel tempo era generoso: chi lo ha ascoltato, soprattutto in pubblico, sa che poteva parlare del cinema, non solo il suo, per una durata superiore a quella dei suoi film. E questo fino alla fine, fino a che quella bronchite che lo allettava da settimane non l’ha reso troppo debole.
Non era umile, Francesco Rosi. Era consapevole del suo talento e forse ancora di più del suo ruolo nella storia del paese, nell’analisi delle sue ombre e soprattutto nella costruzione del suo spirito critico. Napoli piange ancora, dopo l’addio a Pino Daniele deve salutare un altro grandissimo, un altro che è stato capace di raccontarla senza ipocrisie e con nitida e impietosa lucidità. Una città che in questo inizio 2015 si ritrova più povera, più indifesa, priva di chi poteva aiutarla a migliorare e non le faceva mai sconti.
FRANCESCO ROSI, IL REGISTA CONTRO IL POTERE – Il regista de Le mani sulla città – lungometraggio profetico che gli valse il Leone d’Oro, per quel coacervo di malaffare napoletano che raccontava con il suo protagonista Nottola (Rod Steiger), tra speculazione edilizia, politica e potere, capace di raccontare anche l’inferno di cemento romano o quello che avrebbero fatto Ciancimino e soci a Palermo anni dopo – aveva 93 anni. Ed era ancora terribilmente curioso, affamato di cinema. Non dirigeva da molto, troppo tempo, incapace di non essere rigoroso con se stesso come lo era con il proprio paese, la propria arte, i propri colleghi. Amava il cinema, anche come spettatore. E non aveva paura di onorare un regista più giovane: Daniele Vicari racconta con emozione il giorno in cui gli arrivò una sua telefonata. Si complimentava, il maestro, per Diaz. Non a caso. Perché il cinema civile e di denuncia lo aveva di fatto inventato lui in Italia, non dimenticando mai, però, di farlo rimanere soprattutto Settima Arte e mai (o non solo) pamphlet. Dopo di lui molti si nascosero dietro il “messaggio” per abbassare la qualità estetica e narrativa dei loro lavori. Lui mai.
FRANCESCO ROSI, TRA CADAVERI ECCELLENTI E FILM CONTRO – Iniziò a mettere con le spalle al muro la sua Italia e anche la sua Napoli con La sfida. Non erano neanche finiti gli anni ’50, si era alle porte di un boom clamoroso e l’ottimismo di massa mal sopportava uno che non voleva vedere solo ciò che faceva comodo ai potenti. Allora, con quel lavoro, mostrava la violenza, anche morale, della camorra rurale, come un anno dopo, con I magliari, farà con la criminalità organizzata che si espande fuori confine. Due lavori straordinari non abbastanza apprezzati. Anche perché di capolavori, Rosi, ne ha fatti troppi e alcuni iconicamente più affascinanti, alla ricerca dei segreti d’Italia, di quei Cadaveri eccellenti che l’hanno devastata. Il caso Mattei (Palma d’Oro) o Salvatore Giuliano (Orso d’Argento alla Berlinale), stasera su Sky Cinema Classics, ad esempio, hanno consegnato alla nostra memoria storica un modo altro di vedere, di capire, di pretendere la verità. Senza di lui, forse, il popolo si sarebbe accontentato di versioni officiali fin troppo accomodanti.
FRANCESCO ROSI E GIAN MARIA VOLONTE’ – Non aveva, Rosi, la capacità di occuparsi di qualcosa che non ritenesse fondamentale. La criminalità e la voglia di tratteggiare grandi personaggi – motivo per cui fu tra i cineasti prediletti di Gian Maria Volonté, con il quale visse degli straordinari anni ’70 e con il quale c’era un rapporto cinematograficamente simbiotico, anche perché avevano un senso politico dell’arte comune e fortissimo – lo portano a Lucky Luciano, mentre il forte afflato democratico, antifascista e pacifista lo indirizzano verso Uomini contro, splendido ritratto della follia della guerra, a Cristo si è fermato a Eboli, sguardo sul fascismo e sul ventennio di grande sensibilità, all’ultimo bellissimo lungometraggio, La tregua. Carlo Levi, Lussu, Primo Levi: altri che, come lui, hanno avuto il coraggio di dirci e mostrarci chi siamo. Amava sfidarsi, mettendosi alla prova con grandi autori e attori: oltre a Volonté – si resero grandi reciprocamente – pensiamo a Salvo Randone e Rod Steiger, che ebbe in due film, ma anche Sharif e Sordi, che si immaginano lontani da lui e dal suo cinema. Di Vittorio Gassman, con cui codiresse il curiosissimo Kean e fece anche Dimenticare Palermo, di Max Von Sydow e Alain Cuny, anch’egli più volte con lui. E ancora Michele Placido, Philippe Noiret e Vittorio Mezzogiorno (che bravi in Tre Fratelli!), o Irene Papas e James Belushi. E nel già citato La tregua trovi John Turturro e Rade Serbedzija, forse tra i migliori attori del mondo, perché nessuno come lui sapeva raccontare l’Italia e lavorare con chi veniva fuori. Una delle sue tante splendide contraddizioni.
FRANCESCO ROSI, LE ORIGINI – Il 15 novembre del 1922 nacque nel pieno dell’agiata borghesia napoletana, ma seppe sempre difendere gli ultimi dalle ingiustizie, sul grande schermo. Raccontando (pre)potenti e vittime, carnefici e capri espiatori, oscure trame e solari prevaricazioni. Ha reso adulto il cinema italiano, ma gli è rimasto il sogno di fare l’illustratore per bambini. Lo confessò anche dopo il secondo Leone d’Oro, quello alla carriera, nel 2012, o dopo il Premio Fellini ricevuto a Bari, nel 2010 (e proprio il BiF&st di Felice Laudadio gli tributerà un omaggio nella prossima edizione, a marzo).
Non era una cosa sola, Francesco Rosi. Lo hanno criticato per anni per un cinema troppo ideologico e ostaggio del suo rigore. Alcuni, più ottusi, parlavano di bidimensionalità della sua visione, troppo tagliata con l’accetta. Eppure era quella la sua forza: di fronte alle ingiustizie, di fronte allo schifo che lui anticipò – Carminati e soci non sembrano usciti da un suo film? -, era un bambino. Puro, duro, inesorabile. Come sanno esserlo i ragazzini quando sono convinti di essere dalla parte della ragione. E lui aveva il loro sguardo, dentro quella roccia che gli aveva costruito attorno, in quella fermezza potente con cui analizzava tutto ciò che gli era intorno. Mafia, camorra, politica, tsunami di cemento, guerra. Più era atroce il mostro, più non aveva paura di affrontarlo.
Ecco perché per lui valeva veramente l’appellativo “maestro”. Ci ha insegnato a essere cittadini più consapevoli.
Ecco perché non siamo solo molto tristi, ora che non c’è più. Abbiamo anche paura, perché i suoi occhi non ci aiuteranno più a vedere meglio.