Morto Muhammad Alì, la leggenda della boxe
04/06/2016 di Boris Sollazzo
MORTO MUHAMMAD ALI’ –
Si fa fatica anche solo a pensarlo che Cassius Clay, quel fascio di nervi, agilità e carisma, sia morto. Che quel ragazzo divenuto uomo combattendo per il suo paese e poi avendo il coraggio di andargli contro – si rifiutò di partire per il Vietnam a combattere una guerra ingiusta e questo gli costò il carcere negli anni migliori della sua forma fisica, e lì divenne Muhammad Alì – ora non ci sia più. Sì, il grande Muhammad Alì è morto, a 74 anni dopo aver combattuto contro il Parkinson per decenni (noi ce ne accorgemmo ad Atlanta 1996, le Olimpiadi in cui fece da teodoforo principe).
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La sua epopea nacque proprio a Roma: ancora dilettante, danzando sul ring, insegnò pugilato e indossò l’oro olimpico. Fu una delle stelle delle Olimpiadi del 1960 e quel successo lo proiettò tra i professionisti, nella categoria pesi massimi.
MUHAMMAD ALI’ VITA E CARRIERA –
Nasce il 17 gennaio a Louisville in Kentucky, nel 1942: il nome è Cassius Marcellus Clay Jr, era l’ultimo di due fratelli di una famiglia afroamericana che storicamente ha combattuto la discriminazione. La boxe arriva grazie a uno “sbirro” però, Joe Martin, che quando al 12enne Cassius viene rubata la bicicletta se ne accorge per le urla del ragazzino e per le minacce di “dargli una bella strapazzata”. Già alto (arriverà a 191 cm) è però piuttosto esile e così il poliziotto lo portà alla Columbia, dicendo che se vuole farsi giustizia deve allenarsi con la boxe. Nascerà un campione che tra i dilettanti subito fa parlare di sé, arrivando appena 18enne all’oro olimpico a Roma 1960. Passerà professionista cominciando a vincere subito per arrivare al mondiale di categoria nel 1964 e detenendolo fino al 1969. Sarebbe stato un regno lungo e invincibile, se il Vietnam e la chiamata nell’esercito americano non si fossero messi di mezzo. Lui fece l’obiettore – celebre la sua frase “non ho nulla contro i vietcong, che io ricordi nessuno di loro mi ha mai chiamato negro” – e questo gli costò quasi tre anni di carcere. Lì trovò la maturità e la capacità di ricominciare (una delle sue frasi preferite era “non c’è nulla di male a finire a tappeto, nella boxe e nella vita, l’importante è rialzarsi”): indovinate chi fu, infatti, campione mondiale dal 1974 al 1978? Già, Muhammad Alì, che poi si ripeté, per breve tempo, ancora nel 1978, dopo una sconfitta. E’ stato il più grande: non solo per i clamorosi risultati, ma anche per gli scontri epici rimasti nell’immaginario collettivo: i due combattimenti con Liston (dopo il primo, che lo consacrò a campione nonostante le scorrettezze dei secondi di Sonny, trovò oltre alla cintura una nuova fede (l’Islam) e un nuovo nome, Muhammad Alì), altri tre con Frazier (fu epica la sua prima sconfitta: uscito di galera, al terzo incontro si gioca il mondiale: domina, Frazier che aveva occupato il trono in sua assenza, barcolla spesso poi azzecca il colpo del ko: Alì si rifarà tre anni dopo, la bella a Manila, fu forse il match più brutale della storia del pugilato e pare abbia ispirato anche l’infinito incontro Rocky Balboa-Apollo Creed, quest’ultimo chiaramente ispirato ad Alì, nel primo Rocky) infine con Foreman in Zaire, sono dei film impossibili da dimenticare per gli appassionati di boxe, come la sfrontatezza con cui attaccava i suoi avversari fin dalla conferenza stampa di presentazione del match. Ma Alì è uno che ha vinto anche fuori dal ring: filantropo, protagonista di molte attività umanitarie anche quando il Parkinson lo ha piegato, non ha mai smesso di lavorare per la sua gente. E di rimanere un simbolo: un eroe, oltre che un campionissimo.