Pino Daniele: Napoli-Bruxelles solo andata
05/01/2015 di Boris Sollazzo
Un mercato delle pulci a Bruxelles. Lì ci siamo ritrovati, dopo anni, Pino. In 33 giri. Con un mio amico Thiemoko Diarra, giovane artista geniale, che mi guarda incuriosito. Avevo tra le mani Nero a metà, il disco, di più di 30 anni fa. Originale. L’ho comprato con un altro dei Vangelis, dopo una trattativa estenuante. Per fortuna conclusasi a mio favore.
Quello che non mi aspettavo però, era che Tim – a proposito, sai, Pino, che è amico di Stromae? Sono sicuro che ti sia piaciuto e anche parecchio in questi mesi, come te non ha confini – mi chiedesse, la sera, di ascoltarlo. E ti ho rivissuto come allora, attraverso l’entusiasmo di uno straniero che ti sentiva per la prima volta e stringeva il pugno, stupito e trascinato dalle tue note, commentando quante ispirazioni ci fossero in te. “Soul! Blues!” continuava a ripetere. E sorrideva, si faceva dire cosa affermassero i tuoi testi, aveva voglia di ballare. E pure io. Perché di te, ultimamente, ascoltavo solo quel cd gialllo, regalatomi da mia moglie anni fa. Un greatest hits, perché era da un po’ che non ne imbroccavi una. Verrebbe da dire dalla morte di Massimo Troisi, ma forse è troppo retorico e anche troppo ingiusto. Sentivo solo quello e mi ero dimenticato che razza di genio tu fossi, come avessi innovato una musica napoletana ai tuoi tempi non ancora rivitalizzata da Arbore o devastata, ma diffusa, dai neomelodici. Di come avessi rivoluzionato tutta la musica italiana, di come con te volessero suonare pezzi da 90 che tuoi colleghi non potevano neanche contattare.
Live, poi, rimanevi pazzesco. Eri generosissimo: con chi ti ascoltava, ma anche con quei colleghi con cui duettavi e facevi addirittura tournée. Non ti tiravi indietro, non pensavi solo al tuo orticello. Persino in un concerto di capodanno che non avrei visto se non fosse stato per te.
No, non mi metterò a dire come Je so’ pazz’ sia stata un inno generazionale, non ideologico ma ironicamente arrabbiato e ora attualissimo, o come Napul è abbia raccontato la città che amo di più con una lucida, appassionata e impietosa fotografia melodica. Non mi soffermerò neanche su come O’ scarrafone, poco più di un gioco, fece incazzare la Lega e fece sorridere noi al di sotto del Po e di come forse dovremmo rivalutare i tuoi anni ’90. No, io penso a te e Massimo Troisi con Gianni Minà. Alla tenerezza con cui guardavi quel sodale con cui componeste una canzone, Quando, capolavoro.
Di come gli sorridevi, ammirato, ma anche protettivo. Eravate in tv, per una trasmissione in tuo onore. Ma sembrava il contrario. Tutti e due dal cuore grande. Tutti e due dal cuore debole. Ricordo una nostra intervista, pudica e gentile, con quella tua voce buffa quando non cantavi. A Roma, in un hotel. E al 13 dicembre, suonavi a Roma. E io ero nella tua, nostra Campania, e non ho potuto ascoltarti dal vivo, convinto che in fondo sarebbe stata solo questione di tempo, ci sarebbe stato un altro tuo concerto da vivere. Niente da fare. E allora mi commuovo anche un po’, perché mi hai accompagnato in questa vita da napoletano in trasferta. Che male c’è, che c’è di male se ora mi commuovo pensando a Napul è allo Stadio San Paolo, da un po’ bandita, chissà perché. In C o in Champions, tu c’eri. Persino nelle sigle di tutte le trasmissioni sportive sulla mia, nostra squadra che ho condotto nell’etere romano. Perché quella canzone, forse la tua più bella, non blandiva la città più bella e infernale del mondo, la raccontava. E come Woody Allen con gli ebrei, solo tu (e Massimo) potevate permettervi di dire certe cose su Napoli e i napoletani. Sì, Pino, sono un giornalista e avrei dovuto fare tutto un altro tipo di articolo. A me neanche piaceva ‘o blues, prima di te. Lo so che dovevo essere più professionale, ma è pure vero che tu non dovevi morire. Quindi siamo pari. Anzi no, perché io, ora, come glielo dico a Tim che ti aveva appena conosciuto?