Primitivo digitale

Uno è a metà della cosa che sta facendo e il computer – zampf – all’improvviso si spegne. Cose che capitano, ma ci si sente persi. È come un tradimento. Perché, maledetto, mi abbandoni proprio adesso? A metà di un lavoro, nel bel mezzo di una frase? Sarai bastardo, brutto aggeggio di latta. E adesso? Mi è accaduto quasi un’ora fa. Mi sono sentita persa, non sapevo come fare. Ma è mai possibile essere così privi di spina dorsale da restare lì immobili a fissare inebetiti uno schermo nero? Uno resta impalato perché dapprincipio non può pensare che sia vero che l’aggeggio elettronico si sia spento davvero, e per giunta per sempre. Crede che sia un caso, uno scherzo, che tempo dieci minuti si riaccenderà tutto. A volte capita che un robo che pare morto si riaccenda, per quei misteri tecnologici che non si capiscono e in cui si confida con speme miracolistica. Altre volte non capita, il maledetto rimane spento spento spento.

ZOMBIE DI LATTA – Ho trafficato nella speranza di vedere un lumino, una lucetta accendersi da qualche parte del mio laptop. Niente. Buio totale. In più il maledetto vizio di non salvare non aiuta. Vent’anni fa salvavo tutto ogni venti minuti. Ultimamente di salvare non mi viene più in mente, perché confido in modo ottuso in questo aggeggio con cui passo gran parte del tempo e a volte non mi ricordo di copiare le cose da qualche parte. E se mi ricordo mi sento un po’ stupidella, una vecchia ochina diffidente. E invece ecco qui cosa mi è capitato. Ti credevo un amico e invece guardati lì, brutto zombie. Anzi, almeno lo zombie si rianima. Tu no, te ne stai lì senza dare alcun segno di vita.

L’OCCHIO DELLA MADRE – Guardo il mio portatile prematuramente scomparso e rivivo l’incidente informatico. Quando il computer si è spento ho fatto la faccia della madre che le cade la carrozzina giù dalla scalinata di Odessa nella Corazzata Potemkin. Inorridita, impietrita. E che cavolo. Al momento di incredulità è seguito il momento di disperazione. Minuti di frenesia, passati a fare operazioni che una persona in condizioni normali sa che non servono a niente, ma quando stai lavorando e il computer si spegne cominci a credere nella stregoneria e nel woodoo e provi a fare qualsiasi cosa perché cala che riprenda a funzionare. In questi casi si piomba all’inmprovviso nel medioevo della tecnologia e non solo della tecnologia, perché in questi casi a chi non viene spontaneo assestare un paio di pugni allo schermo e staccare e riattaccare la batteria, sperando che il sistema si svegli? Se non va bene la macumba, prima cosa si pensa di portare immediatamente il computer ad aggiustare. Qualcuno fosse mai riuscito ad aggiustarmi un computer negli scorsi cento secoli allora coltiverei la speranza. Ma non mi è mai successo, nessuno è mai riuscito ad aggiustarmi un portatile rotto. Ho sempre dovuto prenderne uno nuovo. Sempre. Ben in due casi ho dovuto persino spendere dei soldi (una volta 50, una volta 37 euro) per sapere che il mio computer era rotto. Soldi spesi bene, devo dire, visto che alla stessa conclusione c’ero già arrivata da sola e gratis.

TECNOLOGIA COME MAGIA – Proverò a portare all’ospedale il mio amato portatile, ma domani. Prima devo elaborare il probabile lutto. Presa coscienza della spentezza del computer sale una domanda angosciante: E adesso cosa faccio? Come farò a finire quello che stavo facendo? Incredibile come uno si senta spento quando il computer si spegne. In casa ci sono altri due computer, ma il mio è il mio, io voglio usare il mio. Illogica regressione. Ma che capriccio è mai questo? Un computer vale l’altro, no? No, il mio è il mio. Provo a riaccendere il trapassato. Niente. Bisogna proprio rassegnarsi, ma ogni cambio di computer è un piccolo trauma neuronale. Probabilmente per i cosiddetti nativi digitali non è così, loro svolazzano tra un elaboratore e l’altro con la massima elasticità. Ma per me, che sono un primitivo digitale, questo inaspettato cambiamento un trauma lo è. Chiedo in prestito il computer dei miei figli. Mi scoccia, ma sono costretta dalle circostanze. Mentre scrivo su questo favoloso computer ultimo modello (tastiera bianca splendente, sulla quale le frasi si digitano praticamente da sole) su un programma di scrittura open source che ci tiene a finirmi le parole in un modo che non voglio, mi si aprono continuamente pagine internet che non ho mai chiesto. Non capisco minimamente perché ciò accada, ma mi sono fatta convinta che sia lui, questo computer estraneo, che mi fa i dispetti perché non voglio le parole che mi suggerisce. Queste qui non sono solo macchine, ognuna ha qualcosa di diverso dalle altre. Il mio computer lo vedo che è lì afflitto e a me dispiace averlo messo in un angolo. D’altronde anche lui poteva non tradirmi. Voglio dargli un’ultima possibilità: opererò un ultimo tentativo di accensione, sperando che per qualche specie di stregoneria si rianimi. Come diceva Arthur C. Clarke, “ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”.

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