Quelle trivelle che minacciano il Mar Mediterraneo

08/10/2013 di Alberto Sofia

RISCHI  – Ma quali sono i pericoli? In particolare si teme per il rischio incidenti, le cui conseguenze restano quasi impossibili da limitare: «Lo dimostra il precedente del Golfo del Messico, ma non solo», spiega Lenzi. Senza considerare l’inquinamento ordinario connesso alle attività di ricerca e coltivazione: «Dai fanghi perforanti alle acque di produzione non mancano le sostante tossiche e i metalli pesanti» ricorda, sottolineando come il Mar Mediterraneo sia già di per sé quello con gli indici di inquinamento più elevati, da un punto di vista degli idrocarburi. Con gravi danni all’ecosistema e alle risorse ittiche e il rischio di danni alla stessa salute umana (gli idrocarburi hanno effetti cancerogeni, ndr).

benzina petrolio

VANTAGGI SOLTANTO PER I PETROLIERI – Quello al mar Mediterraneo è ormai un vero assalto, nonostante il petrolio italiano sia considerato di scarsa qualità, perché pieno di sabbie e di complessa lavorazione. Ma non solo: a poco servirebbe l’estrazione anche in termini di copertura energetica: lo ricorda a Giornalettismo anche Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia: «Secondo stime ufficiali dello stesso Mise (il Ministero per lo Sviluppo economico, ndr) nei nostri fondali marini ci sono appena 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Risorse che coprirebbero il fabbisogno nazionale, considerati i consumi attuali, per non più di sette settimane». Giannì attacca il decreto Zanonato, accusandolo di limitarsi a ratificare quanto prevede l’articolo 35 del decreto Passera. Ma non solo, Giannì svela anche altri aspetti che lasciano perplessi, a partire dalla divisione in tre parti, nel nostro Paese, del procedimento di valutazione d’impatto ambientale: «Le imprese prima chiedono la richiesta di fare la sperimentazione sismica (prospezione), poi, se viene accordata, si portano avanti le attività di trivellazione sperimentale. Soltanto se si trova il petrolio, si va avanti con la coltivazione». Ma questo “spacchettamento”, sostiene Giannì, è vietato dalla direttiva comunitaria in materia, considerato come «non abbia molto senso concedere la possibilità di realizzare analisi sismiche in aree nelle quali poi non sarà concessa la trivellazione». Per questo si è rivolto al Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando: «Ci ha spiegato come tutto sia dovuta alla separazione dei procedimenti al Mise. Ma se questo è vero, è ovvio che ogni fase deve rispettare la legge vigente al momento, altrimenti lo spezzettamento della Via di un procedimento unico non è nient’altro che l’ennesima violazione italiana della direttiva 85/337/Cee sulla valutazione dell’impatto ambientale», chiarisce.

Le aree interessate dalle trivellazioni
Le aree interessate dalle trivellazioni

 

LA GUERRA DEL PETROLIO – Quello che preoccupa è un’espressione presente nell’articolo 35, quella di “atto conseguente”: «Se si viene autorizzati alla prospezione sismica, qualora i procedimenti siano separati, l’unico atto conseguente dovrebbe essere la concessione all’analisi sismica stessa. Punto», incalza Giannì. Il timore, invece, è che siano intese come conseguenza tutte le fasi, compresa la coltivazione. In pratica, in piena violazione della direttiva comunitaria. Ma Giannì denuncia anche lo scoppio di una sorta di “guerra del petrolio”. Dopo l’approvazione della Sen, l’Italia decise di rivendicare – spiega il direttore di Greenpeace – alcuni fondali marini con l’obiettivo dell’estrazione petrolifera, ben oltre il limite della cosiddetta “mezzeria”, ovvero l’equidistanza tra Malta e la Sicilia. Prima di venire sostituito, il governo Monti creò così nuove tensioni in un’area ancora contesa, tra Malta e la Libia. Tanto che nello stesso paese maltese si “rispose” alle provocazione con il ritorno dei sequestri dei pescherecci. Due lo scorso agosto furono quelli seguiti dalle vedette locali e poi fermati: una vicenda chiusa con il pagamento di una multa in denaro (dovuto al presunto sconfinamento e alla pesca abusiva), ma di rado arrivata nella pagine dei media nazionali. Un conflitto condotto sulle spalle di tanti pescatori italiani. «Quando c’è da fare tutela ambientale, si spiega come bisogna mettere tutti d’accordo, dai paesi esteri alle questioni interne, mentre quando si tenta di  ridare una possibilità all’industria petrolifera, così come alla pesca di ripopolarsi, allora emergono tutti i problemi. Giannì ricorda come anche il capo della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Mise, Franco Terlizzese, mostrò dubbi sul decreto ministeriale di Passera che rendeva l’Italia protagonista nel possibile scontro con Malta e Libia. In pratica, con il decreto Passera si allargava a dismisura la “piattaforma continentale” italiana, creando da zero l’ “Area marina C- Settore Sud”, grande quanto due terzi della Sicilia, oltre che sovrapposta ad alcune aree già rivendicate dall’isola dei Cavalieri. Un’area ricca di biodiversità ora a rischio. Basta ricordare come Malta abbia concesso alla corporation Heritage Oil due aree (la 2 e la 7), considerate vicine anche al “Medina Bank 1”, un pozzo petrolifero già trivellato a partire dal 1980 dalla stessa Texaco. Allora Texaco non riuscì a trovare idrocarburi, ma fu in grado di spingere una controversa internazionale tra Malta e Libia. Un “conflitto straccione” – come lo etichetta il direttore – al quale si è inserita anche l’Italia. «Anche se Malta viene criticata per aver compiuto atti unilaterali, l’Italia non può rispondere con un fallo a un altro fallo», spiega Giannì. Anche perché si creano nuove tensioni in un’area nella quale ci sarebbe bisogno di ben altro, dopo il dramma del naufragio di Lampedusa: «Per pochi soldi ci inseriamo in un dibattito inutile. Sarebbe meglio puntare su una rete di aree protette per difendere il Canale di Sicilia (così come previsto dal Protocollo Aree Protette della Convenzione di Barcellona, ndr),  non inserirsi in uno scontro non semplice», aggiunge il direttore. Per Giannì l’Italia dovrebbe valorizzare un’area così ricca di biodiversità come il Mediterraneo, tutelando così anche i settori di turismo e pesca. «Si può anche comprendere se un paese come la Polonia difende il suo carbone, o la Russia il suo petrolio, ma che l’Italia speri di rendersi energeticamente indipendente andando a contendere le riserve a Malta e Libia mi sembra ridicolo», incalza Giannì. Tutto quando basterebbe scegliere la strada dell’efficienza energetica, da imporre ai produttori di auto, insieme a standard di emissioni più severi. «L’impressione è che, prima o poi, sarà la storia a imporre ad una classe politica non in grado di saper leggere le sfide del presente e del futuro prossimo una netta discontinuità in materia di politiche energetiche», conclude il direttore delle campagne di Greenpeace Italia.

Trivelle Mediterraneo 2

I PERICOLI PER IL COMPARTO PESCA E L’IMPEGNO DI ANAPI – Accanto alle associazioni ambientaliste si sono schierate anche le associazioni di categoria del turismo e della pesca, preoccupate per l’impatto delle trivelle sull’ecosistema del “Mare Nostrum”. In particolare, come spiega Piero Forte, presidente regionale di Anapi Sicilia (Associazione nazionale autonoma piccoli imprenditori della pesca) le perforazioni rischiano di sconvolgere «un universo sottomarino di banchi e fondali ad altissima biodiversità, un’enorme ricchezza che andrebbe tutelata e non messa in pericolo». A Giornalettismo, Forte ricorda come lo scorso anno le associazioni di categoria del comparto ittico abbiano sostenuto le campagne di Greenpeace, Wwf e Legambiente: «Dopo l’approvazione del decreto Passera, il 9 ottobre 2012 dovevamo incontrare l’ex ministro dell’Ambiente Clini, ma lui non si è fatto vedere. In pratica, nonostante la grande mobilitazione dei territori – anche la Regione Sicilia aderì, ndr – nessuno ha voluto ascoltare le nostre proteste». Per la pesca il danno delle trivelle rischia di essere immenso, spiega Forte: «Il Canale di Sicilia è un’oasi da salvaguardare, con una ricca fauna e flora marina che verrebbero altrimenti compromesse e turbate dalle trivelle». Oltre al conseguente impoverimento delle risorse ittiche e biologiche, l’incubo è quello di incidenti come quello accaduto nel golfo del Messico: «Nessuna società petrolifera può escluderli: per il Canale di Sicilia sarebbe un disastro», denuncia, ricordando come, a suo dire, nessun ritorno in termini occupazionali può scaturire dalle attività di perforazione per l’isola. «Senza dimenticare come la Regione sia già costretta a subire il peso delle raffinerie di petrolio, come a Gela, Augusta e altri centri, ormai compromessi». Per i pescatori, la filiera ittica e l’indotto, già travolti dalla crisi economica, quella delle trivelle sarebbe quindi una presenza troppo pesante: «A causa dell’inquinamento sono già diverse le aree nelle quali i pescatori non possono più operare. Se si andrà avanti in questa direzione, per tutto il comporto pesca, così come per il turismo, il danno economico nell’area mediterranea sarà elevato», conclude Forte, denunciando la latitanza delle istituzioni nazionali e comunitarie.

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