Quirinale, la “vera storia” dei 101 che silurarono Romano Prodi
26/01/2015 di Tommaso Caldarelli
Quirinale, come andò veramente che i 101 parlamentari del Partito Democratico silurarono la corsa di Romano Prodi al colle più alto? Dopo le affermazioni di Stefano Fassina, esponente della minoranza del Partito Democratico, su la Stampa di oggi Fabio Martini pubblica un ampia ricostruzione dei giorni che cambiarono il corso della legislatura e che aprirono la strada al fallimento della segreteria di Pierluigi Bersani.
QUIRINALE, LA STORIA DEI 101 PARLAMENTARI CHE SILURARONO PRODI – “Matteo Renzi fu il capo dei 101 che affossarono Romano Prodi”, ha recentemente affermato Stefano Fassina. Le cose, racconta Martini, sarebbero andate in modo totalmente diverso: “È la sera del 18 aprile 2013”, racconta il cronista della Stampa, “e il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale dell’accordo tra Bersani e Berlusconi. In quelle ore il Pd sta decidendo di cambiare cavallo e strategia e a quel punto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sempre così restio a farsi vedere a Roma, si scomoda. Convoca i «suoi» 35 parlamentari al ristorante e gli comunica: “Si vota Prodi”. Dunque, le affermazioni di Fassina, scrive Martini, sarebbero “prive di fondamento” perché l’attuale segretario del Pd avrebbe dato ordine ai parlamentari a lui vicini di votare il Professore, se non altro perché se allora si fosse formato “un governo di legislatura, lui rischiava di finire per cinque anni nel freezer”. Così, da Eataly di Roma arriva la direttiva agli esponenti renziani: si voti per Prodi.
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LA CANDIDATURA DI MASSIMO D’ALEMA – “Ma quella notte accadono altre due cose decisive”, continua Martini: “Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: “La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente”. L’operazione da bloccare non era quella di Prodi, dunque, ma quella di Massimo d’Alema, pronto sulla rampa di lancio: “D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto! Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva”. La mattina dopo, prestissimo, Pierluigi Bersani propone ai parlamentari del Pd il nome di Romano Prodi: candidatura, come è noto, accolta all’unanimità dai parlamentari del Pd, giusto? Sbagliato: “All’annuncio del nome di Professore, le prime due file, ma solo quelle, si alzano in un applauso entusiastico, Bersani e Zanda «cedono» all’acclamazione senza voto”. D’Alema dirà a Marco Damilano nel suo ultimo libro che quella sera “in sala c’è stato l’errore grave di chi doveva parlare e non lo ha fatto”, ovvero di Anna Finocchiaro, che avrebbe dovuto opporsi all’acclamazione e chiedere la conta.
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RODOTA’ NON SI RITIRA – Romano Prodi è candidato da Pierluigi Bersani, dunque, ma nessuno lo chiama. Dovrà essere lui a telefonare a due esponenti cruciali per la definizione della corsa al Quirinale: “Telefona a Massimo D’Alema, che è sincero e gli dice: «La situazione, dopo l’esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi annota mentalmente: D’Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama il suo vecchio amico Mario Monti, che gli rinnova tutta la sua amicizia ma gli dice: “Romano la tua candidatura è divisiva…”. Né i dalemiani, né l’area centrista, dunque, sosterranno il Professore al Colle; Stefano Rodotà, ancora in campo per il Movimento Cinque Stelle, fa sapere che davanti al nome di Prodi non intende ritirarsi dalla corsa: l’ex garante della Privacy “fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione «alta» come quella di Prodi, Rodotà non si ritira”. Pochi minuti dopo Prodi confida alla moglie: “Non passerò”. E la frittata è ormai fatta.