Roma, gli errori del centrosinistra nella “città coloniale” di Walter Tocci
13/10/2015 di Tommaso Caldarelli
Roma, gli errori del centrosinistra delle giunte di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni, insieme alle sfavorevoli congiunture economiche, agli imprevedibili mutamenti sociali e a riforme negative dei governi nazionali hanno costituito un amalgama esplosivo che ha portato la capitale d’Italia a sprofondare nel pantano di Mafia Capitale, del degrado, dei disservizi e dell’inefficienza; i problemi dell’amministrazione sono tanti, ma a mancare è il disegno complessivo e la comprensione profonda di come si possa portare la città fuori dal guado. Questa è l’opinione di Walter Tocci, parlamentare del Partito Democratico e conoscitore profondo delle dinamiche romane, messa nero su bianco nel suo saggio, un instant book uscito in formato digitale per GoWare: “Roma – Non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana”.
ROMA, GLI ERRORI DEL CENTROSINISTRA NELLA “CITTA’ COLONIALE” DI WALTER TOCCI
Un saggio, dice Tocci, scritto “di getto” dopo che molti cittadini, amici e militanti del centrosinistra gli avevano chiesto un opinione sulle inchieste del Mondo di Mezzo che hanno travolto la città fin dallo scorso autunno. E sono davvero molti, nel centrosinistra romano, a vedere in Tocci un punto di riferimento prima di tutto intellettuale: in effetti, non è da tutti inaugurare un libro sui mali di Roma guardandosi prima di tutto in casa: sono vari i fronti su cui, secondo Walter Tocci, il centrosinistra, pur tentando di amministrare la città in totale buonafede, ha lasciato buchi, appigli e interstizi in cui il malaffare, o nei casi peggiori la criminalità, ha potuto inserirsi. Presidente della Quinta Circoscrizione di Roma, poi consigliere comunale dal 1985 al 1993, vicesindaco di Francesco Rutelli in entrambe le sue giunte, approda poi in Parlamento. A Roma è noto per essere il principale fautore, e il miglior interprete della cosiddetta “cura del ferro”, ovvero l’idea che il sistema del trasporto pubblico romano debba basarsi, per la particolare conformazione urbanistica e demografica della capitale, essenzialmente su un potenziamento dell’offerta di trasporto su rotaia, nello specifico attraverso l’intensificazione del servizio dei tram cittadini.
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LA CRISI ECONOMICA, IL PARTITO DEMOCRATICO, I PROBLEMI DI ROMA
“La mia tesi”, scrive Tocci, è che il centrosinistra al governo della città fra il 1993 e il 2001 abbia essenzialmente “guadagnato tempo, rinviando la crisi della città di un ventennio, ma senza avere la forza di modificare le cause strutturali del declino”: i tre motori economico-sociali della città, “il consumo, la spesa pubblica e l’immobiliare” negli anni del centrosinistra vennero utilizzati “in modo innovativo”, ma non furono stimolati da un progetto sulla città: quando mutò la fase economica, scrive Walter Tocci, la città andò giù. E la colpa, lo scrive chiaro il senatore Pd, è anche del Partito Democratico romano che nella Capitale “non ha mai espresso una funzione politica, nel senso della costruzione di un progetto per la città”, e che non è riuscito, durante gli anni della giunta di Gianni Alemanno ” a fare argine al malgoverno della destra” né ad impedire la Parentopoli alemanniana senza che fosse necessario l’intervento della magistratura. Ma, ed è qui lo snodo della profonda autocritica che permea la prima parte del libro, l’autore si chiede se si possano addossare proprio tutte le colpe al governo di Alemanno, o se, invece, “talune policies ispirate dalle migliori intenzioni non abbiano poi prestato il fianco a stravolgimenti successivi, o se certi errori non prontamente corretti non abbiano poi aperto le maglie a sistematiche spoliazioni dell’interesse pubblico; oppure ancora se certi vuoti di governo non siano poi stati riempiti dalla melma del malaffare”.
ROMA, GLI ERRORI DEL CENTROSINISTRA PER WALTER TOCCI
La risposta è ovviamente positiva, ed è dipesa in gran parte, scrive l’autore, dal ruolo che il Partito Democratico ha esercitato in città: un partito che a Roma ha saputo affidarsi da subito soltanto ai tanti notabili, alle tante personalità singole che hanno coperto i compiti che solitamente spettano a una forza politica organizzata; “il progetto di città, le relazioni con la società, la presenza nel territorio, la selezione della classe dirigente”. Sono i notabili cittadini, che mutuano la vecchia organizzazione democristiana nella quale si sentono a casa anche gli eredi del Pci. Questo tipo di pratica politica ha portato il Partito romano a non sapersi difendere dai tanti “Mirko Coratti e Marco di Stefano” che, dice Tocci, per il loro modo di fare politica dovevano essere allontanati dal partito prima che arrivasse la magistratura. L’autocritica di Tocci continua su tutti i fronti: dalle municipalizzate, la Centrale del Latte, portata “in un vicolo cieco” dai privati; Acea, quotata in borsa per diversificare la destinazione di business, obiettivo “completamente fallito”; Ama, “sempre rimasta succube del monopolista privato”; Atac, “sottoposta ad una riforma incompiuta”. Per non parlare delle Cooperative Sociali che accolsero l’esternalizzazione dei servizi promossa proprio dal Comune: “Il fascino narrativo di questa politica”, scrive Tocci, “impedì la riflessione critica sui problemi che essa creava”, perché per una forza di sinistra interfacciarsi con delle cooperative sociali significa basarsi “su un alone di benemerenza che trasferisce il valore positivo di alcune esperienze all’intero settore”. Col risultato di definire Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa Sociale 29 Giugno, “praticamente la Caritas”, appellativo che nelle aule della politica romana è stata sentito più e più volte da chi scrive.
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ROMA, “LA CITTA’ PUO’ FUNZIONARE”: L’ESEMPIO DEL GIUBILEO DEL 2000
Eppure, dice Walter Tocci in questo stralcio del libro in cui ricorda ricordando la Roma del Giubileo del 2000, la città può funzionare, eccome: sarebbe sufficiente tornare ad azionare una politica amministrativa sapiente, avere chiara la visione della città, motivare i dirigenti, sfruttare il meglio delle procedure amministrative a disposizione per evitare distorsioni e corruttele.
Ma dietro gli assessori era decisiva la spinta realizzativa dei due sindaci, Rutelli e Veltroni, entrambi presi dalla politica nazionale e dalla proiezione internazionale di Roma, eppure con un’attenzione quasi maniacale al dettaglio dell’attuazione amministrativa. Ogni uscita in un quartiere riportava in Campidoglio istruzioni precise e incalzanti che sarebbero state seguite ossessivamente nei mesi successivi fino a poter annunciare il risultato ai cittadini interessati. Certo, dove non arrivava il volontarismo politico le pratiche languivano. I migliori successi si ottennero per la forte volontà politica, ma la funzionalità dell’amministrazione non è stata modificata in modo strutturale. I difetti sono esplosi quando è venuta meno la tensione progettuale e hanno preso il sopravvento gli interessi corporativi e di singoli rinfocolati dalla destra al governo. La burocrazia comunale è abituata da una lunga storia a recepire i mutamenti del clima politico e ad adeguarsi prontamente. Anche da questo punto di vista, si conferma la non irreversibilità della riforma. C’è una buona pratica di quegli anni che può fornire indicazioni utili ancora oggi nell’attuazione delle opere pubbliche. Ogni cantiere ormai in Italia diventa un problema che si cerca di risolvere ricorrendo a procedure d’emergenza, a commissari straordinari e a ossessive riscritture delle norme, che di solito rendono ancora più difficili le realizzazioni. Aver evitato queste false soluzioni è invece la ragione del successo del programma per il Giubileo. Il sindaco Rutelli chiese al governo di non ricorrere a una legge speciale ma di applicare le norme sugli appalti approvate su iniziativa del ministro Merloni dopo Tangentopoli. Erano norme mirate a impedire le corruttele, le revisioni dei prezzi e il contenzioso delle imprese. Imponevano a base dell’appalto un progetto esecutivo dettagliato per ottenere una vera concorrenza nell’aggiudicazione e un controllo effettivo nell’attuazione. Presupponevano però una forte capacità progettuale pubblica che andava ricostruita dopo lo smantellamento perpetrato dalle lobby politico-imprenditoriali negli anni Ottanta. In breve tempo si acquisirono professionalità esterne, ma soprattutto si motivarono i tecnici interni con l’assegnazione di nuove responsabilità e forti incentivi economici. La scelta certo rischiosa diede risultati formidabili, dimostrando che la macchina pubblica quando non è ridotta solo a mettere timbri, ma viene chiamata e premiata per guidare i processi, è in grado di esprimere energie imprevedibili. Il monitoraggio del programma fu affidato a un advisor tecnico esterno – scelto mediante una gara europea – che forniva mensilmente un rapporto sulle criticità e consentiva agli organi tecnici e politici di correggere la rotta in corso d’opera, secondo la metodologia del project management scarsamente utilizzata in Italia. La città fu investita in poco più di due anni dalla realizzazione di 411 opere che furono portate a termine per il 97% entro la scadenza giubilare. Nonostante una densità di cantieri mai vista prima, i disagi furono contenuti da un efficiente coordinamento dei lavori e dalla generosa comprensione dei romani che stupì gli osservatori stranieri. Invece dei logori bandoni di un tempo apparvero recinzioni colorate – arricchite da pannelli informativi e poesie d’autore dedicate a Roma – che trasformarono i cantieri in strumenti di comunicazione e di coinvolgimento della città, sotto la sapiente regia di Paolo Gentiloni, attuale ministro degli Esteri. L’efficacia degli interventi veniva esaltata da un modello gestionale del sistema urbano. Il centro storico venne liberato dai pullman turistici, mediante una ventina di parcheggi che consentivano ai turisti di entrare in città con una rete dedicata, le innovative linee J gestite da privati a costo zero per il Comune, senza i sussidi pubblici che in Italia sostengono gran parte dei costi del trasporto locale. Tutte le opere realizzate con il programma per il Giubileo si sono rivelate utili alla città anche dopo l’evento, perché erano state selezionate con una visione d’insieme, eliminando quelle di cui il monitoraggio segnalava una progettazione difettosa. Si è spesso polemizzato per la mancata realizzazione di grandi opere, ma è una querelle insensata. Si dimentica che il programma fu proposto nel 1995 e i finanziamenti furono resi disponibili dal governo solo alla fine del 1997, quando ormai non c’erano più i tempi per realizzare grandi infrastrutture come la metropolitana. Anzi, è da sottolineare la formidabile tempestività con cui il programma venne rimodulato distribuendo le risorse su piccoli interventi di manutenzione urbana, rendendo ancora più complicato il coordinamento delle opere, ma ottenendo un effetto sistemico più forte. Le piazze restituite ai pedoni, i restauri dei monumenti e delle basiliche, le facciate dei palazzi, il tram e la ferrovia metropolitana, i nuovi musei, la rete di informazione e altro ancora diedero ai turisti l’impressione di una Roma nuova che smentiva tutti gli stereotipi negativi e si proponeva come capitale del cambiamento dell’intero Paese. La realizzazione delle grandi opere fu invece molto più travagliata. Le grandi imprese nazionali non reggevano il rigore della legge Merloni e, impossibilitate a ripetere i trucchi di Tangentopoli, fallirono quasi tutte nell’esecuzione dei lavori. Si dovettero riappaltare in corso d’opera, ad esempio, l’auditorium e la ferrovia Cesano-San Pietro. Invece di migliorare la gestione aziendale gli imprenditori organizzarono una lobby contro la legge Merloni che trovò sponda in Berlusconi. Con la famosa lavagna da Vespa gettò fumo negli occhi per nascondere il ritorno alle pratiche degli anni Ottanta. La famosa legge-obiettivo, che doveva velocizzare l’attuazione delle opere, in realtà servì a resuscitare il vecchio appalto in concessione basato su una progettazione poco definita che consentiva affidamenti più discrezionali e un controllo più lasco dell’interesse pubblico. Già in campagna elettorale il centrosinistra non ebbe la prontezza di smascherare il trucco, come avrebbe potuto fare proprio servendosi delle buone pratiche realizzate a Roma e in tante altre città italiane.
Il libro prosegue con un corposo capitolo programmatico in cui si enunciano progetti a 360° per la capitale, dalla cultura all’urbanistica, dal rinnovo delle periferie alle strategie per creare occupazione ad alta tecnologia, dal ripensamento delle municipalizzate alla politica di valorizzazione dell’amplissimo patrimonio pubblico in mano al Comune, dal rilancio del commercio e del tessuto sociale della città; per non parlare del corposo e puntuale appendice sulla politica dei trasporti, che meriterebbe un approfondimento a parte.
ROMA, WALTER TOCCI: “NON SI PIANGE SU UNA CITTA’ COLONIALE”
Roma, per Walter Tocci, è “una città coloniale”, secondo la definizione che ne dette Pier Paolo Pasolini nella sua “Meditazione Orale”.
Le “note sulla politica romana” di Walter Tocci sono una lettura consigliata per qualsiasi cittadino che da adesso in poi, si candidi ad amministrare una parte della Capitale, dall’ultimo consigliere municipale, ai dirigenti e funzionari del Campidoglio, al migliore dei Sindaci che questa città possa avere; sono poi una lettura obbligata per gli esponenti del centrosinistra romano, che amano definire Walter Tocci “il migliore di tutti” salvo poi evitare con agile accuratezza di ascoltare quanto lui abbia da dire su una città che, di certo, conosce come pochi. Cento pagine in cui l’ex assessore e deputato, con tono competente, seppur rassegnato davanti a quanto accaduto negli ultimi di vita della città, traccia la strada – difficile – sulla quale la Capitale può provare a ripartire. Molte delle proposte programmatiche che Tocci presenta, va detto, non hanno la caratteristica di essere particolarmente innovative, e si sono già lette – con una certa ridondanza, in realtà – nei programmi elettorali dei vari centrosinistra che si sono candidati a guidare Roma. Ma in una città in cui la semplice buona amministrazione sembra sempre avere il gusto e il carattere dell’incredibile novità, crediamo che un’ulteriore ripetizione di alcune policy di buon senso, espresse da chi ha fama di essere persona onesta e competente, non possano che far bene.