Sabina Guzzanti a Venezia con La trattativa. Sì, ma quale?
03/09/2014 di Boris Sollazzo
Le polemiche sul mancato finanziamento del Ministero. I tweet polemici di Sabina Guzzanti (uno anche per il festival, lasciando intendere che era ovvio che non la mettessero a concorrere per il Leone d’Oro). Il vittimismo autoreferenziale e preventivo. Il complottismo e la sfiducia verso le istituzioni che vengono difese, però, quando affondano il nemico. Si è parlato tanto dell’opera fuori concorso qui a Venezia La trattativa, prima ancora di vederlo.
Questo film nasce e cresce con fatica, come film, anche perché l’argomento in divenire e le acrobazie di Massimo Ciancimino di fronte agli inquirenti hanno messo in crisi molti “mafiologi”, compresa la regista. Uno dei motivi per cui il progetto ci ha messo quattro anni a vedere la luce. Ora arriva a Venezia: alla prima proiezione per la stampa è scattato un applauso contenuto nella quantità di persone che vi si uniscono, ma intenso nella forza e nella durata.
COSA RACCONTA LA TRATTATIVA? – Difficile dirlo. Tutto, forse troppo. Scordatevi di andare a vedere il 2 ottobre (l’uscita in sala, per Bim, è prevista per quel giorno) solo un’opera di inchiesta sulla famosa trattativa Stato-Mafia, l’affaire Mori-Mancino-Napolitano e così via, per intenderci. Come spesso le accade, la regista non si accontenta, anzi verrebbe da dire che quel periodo tra il 1992 e il 1994 in cui le istituzioni avrebbero cercato un accordo con la criminalità organizzata per chiudere la stagione delle bombe e degli attentati, è quasi un pretesto. Per attaccare il nemico numero uno dell’autrice, Silvio Berlusconi. Verrebbe quasi da definirlo Viva Zapatero 2, o Viva Zapatero in Sicilia. Perché rispetto a una visione anche piuttosto incompleta della trattativa in oggetto e in alcuni tratti forzata, è invece molto dettagliata la narrazione deduttiva della conclusione della stessa per l’arrivo di Forza Italia, Sua Emittenza e la loro aderenza a certi interessi, almeno secondo i boss. Il bombarolo Bagarella e il machiavellico Provenzano, insomma, in disaccordo su tutto, grazie a Marcello Dell’Utri, avrebbero trovato una sintonia con “quello di Canale 5” (così lo definiscono, Re Silvio, nell’intercettazione precedente al fallito attentato allo Stadio Olimpico Graviano e Spatuzza). Prima, invece, si fa un lungo prologo su Falcone e Borsellino, inevitabile, per contestualizzare.
I PREGI DEL FILM – La scena iniziale, l’esame di teologia di Spatuzza, la domanda sulla grazia. Momento di bel cinema, con cui si apre il lungometraggio e che lascia ben sperare. Anche perché Enzo Lombardo, parte del “gruppo di lavoratori dello spettacolo” (citazione del corto sul caso Pinelli di Elio Petri, espressione lì pronunciata da Gianmaria Volonté, qui dalla stessa Sabiina Guzzanti), è tra gli attori quello più efficace. Buona anche la fotografia di Daniele Ciprì, nella ricostruzione in teatro di posa di interrogatori, testimonianze e di interazioni tra personaggi reali realizzati con gli strumenti della finzione. Interessante la (ri)scoperta del personaggio di Luigi Ilardo, poco conosciuto e centrale nel “caso Mori”, confidente fondamentale in quegli anni, coraggiosissimo nell’aprire le porte della mafia in tempo reale, e ucciso perché incastrato da chi non aveva interesse a scoprire le verità nascoste di una guerra ambigua. Probabilmente con la complicità di chi era vicino, allora, a chi raccoglieva le sue confidenze.Infine il finale, di nuovo durante il suddetto esame universitario, dedicato a Don Puglisi ricordato dall’assassino Spatuzza: toccante e potente.
I (TANTI) DIFETTI DEL FILM – Come sempre le accade Sabina Guzzanti non rinuncia ad avere un ruolo centrale, come collettore e voce narrante, o meglio traente, dei vari fili investigativi e di racconto delle troppe tracce aperte nel film. Non rinuncia neanche a un’interpretazione costantemente forte e forzata. Quando con il sistema delle foto e dei collegamenti fa un bignami di quella primavera-estate del 1992 in cui i due eroi dell’antimafia Falcone e Borsellino vegono barbaramente uccisi, mettendo in piedi il complotto di cui sarebbero stati vittime, le informazioni che propone sono parziali. Nel coinvolgimento dei presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Napolitano, ad esempio, appena accennato. O nel sostenere che Scotti e Martelli vengano allontanati per favorire, appunto, La trattativa. Si fa finta, o quasi (il famoso Craxi al Rafael viene riproposto nel solito episodio ormai mitico delle monetine) che non vi sia Tangentopoli, o sia solo un pretesto, e che, ad esempio, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia di allora non si sia dimesso a causa di un procedimento a suo carico aperto in quei giorni (con grande senso dello Stato, peraltro: fu tra i primi, e tra i pochi a farlo). C’è poi l’ossessione berlusconiana, che ci fa passare troppo velocemente dalla “trattativa stato-mafia”, risolta in una contrapposizione tra un ingenuo Caselli e un diabolico Mori (estremamente semplicistici entrambi i ritratti), per concentrarsi sul filone Dell’Utri-Mangano-Berlusconi, passando per la fondazione di Forza Italia e la realizzazione, da parte di Cosa Nostra, che quel centro di interessi potesse realizzare i grandi progetti politici e illegali della Sicilia criminale. Anche qui il racconto storico-analitico è didascalico e ben più superficiale, ad esempio, di quello più libero, feroce e antropologico di Franco Maresco in Belluscone. Una storia siciliana. Tutto è così aleatorio che nel cartello finale si è costretti a dire che alcuni dei personaggi attaccati molto pesantemente nel film non hanno subito condanne. E durante il film gli attori che interpretano i magistrati che raccolgono le testimonianze del bizzarro Massimo Ciancimino, incidentalmente, ammettono la sua quasi totale inaffidabilità come teste. Ultimo difetto, ma non meno importante, è la fragilità artistica e cinematografica del lungometraggio, scalcagnato insieme di immagini di repertorio ormai abusate, di una ricostruzione teatrale raramente felice, per tempi e talenti (alcuni attori non sono all’altezza, altri non sono in parte), di una scrittura zoppicante, forse figlia anche del fatto che la famosa “trattativa stato-mafia”, mentre il lavoro della Guzzanti veniva su, ha subito enormi cambiamenti, ha rivelato falle non trascurabili e ha tradito molti dei suoi sostenitori che avevano appoggiato piuttosto acriticamente la tesi della procura di Palermo. E il prefinale in cui, con intento (po)etico, si vorrebbe sostenere che gli ultimi 20 anni disastrosi siano figli di quel matrimonio insano, è demagogica e facilona, a partire dai titoli di giornale che riassumono fatti evidentemente slegati tra loro fino allo sguardo sull’Ilva.
UN SICURO SUCCESSO – Ma fossimo in Sabina Guzzanti non ci preoccuperemmo di polemiche e stroncature: c’è ancora un nutrito pubblico che desidera tifare e non riflettere. E La trattativa è per loro: per tutti quelli che cercano il complotto e non l’informazione, la dietrologia e non la ricostruzione seria e approfondita. Ed è un peccato, perché la Guzzanti de Le ragioni dell’aragosta e della parte centrale di Draquila, poteva fare molto di più e molto meglio. Ma forse non è riuscita ad abbandonare un progetto cinematograficamente e giuridicamente dai piedi d’argilla.