Il problema non è Salvo Riina sulla Rai. E’ Bruno Vespa

08/04/2016 di Boris Sollazzo

Li Gotti, avvocato che di “mascalzoni” (ma che termine è, Vespa!) ne ha difesi tanti, ha detto ieri sera che a volte il silenzio è la miglior risposta. Ecco perché la tentazione di sperare che l’intervista di Bruno Vespa finisse seppellita sotto una coltre d’indifferenza era tanta (e in fondo un milione di spettatori son pochini, va detto). Anche perché di stupidaggini clamorose se n’erano dette da tutte le parti, prima dell’intervista annunciata a Salvo Riina: tra i difensori di Vespa, che brandivano il diritto di cronaca e la libertà d’espressione come un manganello, tanto da poter arrivare senza problemi a giustificare anche la programmazione durante a Porta a Porta, un giorno, di uno snuff movie (stiamo scherzando, ma sarebbe comunque meno ipocrita dei famosi plastici), agli indignados in servizio permanente effettivo, che tra accuse di “negazionismo”, mafiofilia e complicità con il nemico dello stato si sono resi ridicoli.

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Intervistare i cattivi si può. Anzi, si deve. E’ difficile, a volte impossibile. Ma è necessario per capire il Male, per scoprirne i rivoli che scorrono dentro di noi, per cercare le contraddizioni del Sistema. Buscetta e Biagi sono la dimostrazione più palese di questo connubio, ma anche Truman Capote che pure da quel lato oscuro fu di fatto inghiottito.

E allora qual è il problema di Salvo Riina alla Rai, ospite in registrata e in solitaria a Porta a Porta? No, non la mancanza di rispetto delle vittime. Tanto che, infatti, il dignitosissimo e intelligentissimo Vito Emanuele Schifani, tenente dei carabinieri e figlio di uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone uccisi a Capaci (ricordate la splendida orazione funebre di sua madre?), era lì. Non offeso, ma spiazzato. E neanche il rischio di apologia di Cosa Nostra: il pubblico è più intelligente degli opinionisti nostrani e non sarà un figlio di papà (anche se il papà è il capo dei capi, questo è sembrato) a fargli cambiare idea. E neanche, infine, la mancanza di contraddittorio, che pure era irritante.

Il problema è Bruno Vespa. A Porta a Porta non si va per farsi intervistare. Si va per declamare. Le notizie che escono fuori da quello studio non le provoca chi intervista, ma le annuncia l’ospite, sul modello del contratto con gli italiani di Berlusconi. Ovvero: vengo, spadroneggio, annuncio, vado. E torno quando mi serve. Bruno Vespa, ahinoi, non può considerarsi un giornalista, non più- Modera, presenta, solletica al massimo. E la cronaca nera gli ha insegnato che tutto può essere visto dal buco della serratura. E da quel buco, lui, ha intervistato Salvo Riina.
Intendiamoci, prima di continuare: Bruno Vespa non è il solo. Chi scrive ha trovato insopportabile anche la D’Addario e Ciancimino Jr da Santoro. Non perché fossero cattivi esempi o cattivi maestri (o allievi), ma perché l’intervista non è un patto di lealtà con l’intervistato, che va trattato con rispetto, ma mai con accondiscendenza. E’ un patto di lealtà con il pubblico, lettore, ascoltatore o spettatore che sia. Santoro lo tradiva, perché ciò che sentiva blandiva l’odio che condivideva con la sua audience (e così pazienza se Ciancimino Jr lo ha riempito, anche, di fandonie clamorose), Vespa lo tradisce perché per un punto di share in più è disposto ad accarezzare i nostri lati più morbosi.

Il male si può intervistare. Franca Leosini ce lo ha dimostrato innumerevoli volte. E persino Sean Penn con El Chapo. E abbiamo un nugolo di grandi giornalisti che sanno e saprebbero farlo alla grande: da Antonello Piroso a Giovanni Minoli, per dirne un paio, se si volesse andare sul sicuro.
Il punto è che un’intervista presuppone una notizia, uno scarto, un grado di imprevidibilità. Faccio parte forse dell’ultima generazione che ha avuto ottimi maestri e ricordo di lunghe e piacevoli chiacchierate con personalità affascinanti, riportate con cura, che venivano bollate dal direttore, caporedattore, caposervizio con “sì, ma il titolo dov’è?”. Un modo un po’ rude di farmi capire che erano contenti avessi avuto una brillante dissertazione con il mio interlocutore, ma dovevo far capire loro perché un terzo dovesse trovarlo interessante.
Salvo Riina non è uno scoop in sé, come non lo erano i Casamonica in studio. Lo è El Chapo latitante. E infatti la notizia Penn, che giornalista non é, con El Chapo non la tira fuori. Ma la chiacchierata è fighissima lo stesso. Perché l’attore non è ipocrita, aderisce a colui che parla, si prende, anzi si mangia la patata bollente e decide che conoscere quell’uomo, rischiare di fargli da megafono, vale il rischio di sporcarsi proprio per andare dove nessuno è stato. In modo più cialtrone – nei toni – è quello che fa Cruciani alla Zanzara. Rompere il velo di ipocrisia.

Vespa che fa? Quello che fa sempre: vuole salvare capra e cavoli. Vuole fare il giornalista, ma non trova uno straccio di notizia, di titolo. Salvo lo manipola, riesce a dirci che papà, sì, ha fatto stragi, ucciso centinaia di uomini, fatto sciogliere nell’acido nemici e innocenti e preso 18 ergastoli. Ma “lo Stato gliel’ha tolto”. Gli fa dire che “con noi Riina esagerano sempre: infatti a me han dato 14 anni, e sono uscito dopo neanche sei per decorrenza dei termini”. E il buon Bruno non sente neanche il bisogno di dirgli (e dirci) che la “decorrenza dei termini” non è la dimostrazione che lui fosse innocente e quindi assolto, ma solo che la magistratura non ha portato a termine il suo compito in tempo.
Si ostina, Vespa, a rimanere attorno a quel tavolo, a cui Totò Riina tornava ogni sera. Dove lo tiene Salvo Riina. E l’intervistato, reticente, gli ripete solo “eravamo speciali, particolari” ai suoi timidi rimbrotti. Cade in una gaffe, il giornalista, che non nota neanche rivedendo la registrazione evidentemente. “Falcone e Borsellino vengono considerati degli eroi” dice il padrone di casa di Porta a Porta. Eh no, caro Vespa, “SONO DEGLI EROI”. Non “vengono considerati”. Le parole sono importanti, se intervisti un Riina.
Quindi, niente notizie. E neanche un ritratto reale, vivo, del boss e della sua famiglia, a dirla tutta, come invece nel caso di El Chapo. Ci mostra solo il santino consumato (e, diciamolo, ridicolo) che porta con sé l’intervistato, quello che gli propone per pubblicizzare il libro per cui è lì da lui. E gli fa pure dire, tanto per gradire, che “è una persona umana mio padre”. Uno “che ci ha insegnato tante cose”. Vespa, così disabituato alla famosa seconda domanda (altra lezione dei maestri di giornalismo: non conta fare una domanda scomoda, se alla prima risposta abile ma non sufficiente, non ne aggiungi almeno un’altra) non riesce neanche a dirgli “sì, ma quali?”.

Quest’intervista non serviva a nulla. Se non, appunto, a spiare dal buco della serratura la famiglia Riina. Vito Emanuele Schifani, tornati in studio, per l’avvilente dibattito riparatore, fa due domande che Vespa si era scordato. Una, semplice e potente, la voglio riportare. “Ok, non vuole dirci cos’è la mafia. Avrei voluto chiedergli però cosa sono Bene e Male per lui, quali sono i suoi valori”. Vespa era troppo impegnato a fargli dire che “papà era stato cattivo”, che loro, figli, non potevano non sapere o sospettare, a tentare il sensazionalismo di un rossore o magari una lacrima mostrandogli gli atroci attentati o l’arresto di Brusca. Tutto quell’impegno, peraltro, per un nulla di fatto.
Riesce però a permettere a Salvo di contestare una legge italiana, di quella Repubblica che la sua famiglia ha lacerato con ferite mortali, quella sul pentitismo. E a voler seguire gli insegnamenti dell’antimafia, dava tanto l’aria d’essere un pizzino, quello.

Insomma, il problema non è Salvo Riina. No. Anche se ancora va capito che interesse possa rivestire intervistarlo.
Il problema è considerare, ancora, quello di Bruno Vespa e, soprattutto, di Porta a Porta, giornalismo. E’ infotainment, quando va bene.
E come ci indigneremmo se ad intervistare un ipotetico fratello di Abdeslam Salah (magari finito in carcere per reati connessi ai suoi) fosse Barbara D’Urso, così non possiamo più “permetterci” che un Riina, un Casamonica, il padre di Foffo, o un qualsiasi pregiudicato o parente di un reo confesso – colpevole di delitti atroci, peraltro – passi più da quel salotto Rai.

 

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