Star in strada
27/11/2015 di Clementina Coppini
Ero in macchina ad Agrate quando m’imbatto in un banchetto di protesta. Che protestano si capisce dalle scritte sui lenzuoli: “Sughi dadi infusi questi spagnoli ci hanno delusi”.
Sono dipendenti della Star, che hanno organizzato un mini presidio per raccontare cosa sta succedendo. Parlo con Urbano, Fabio e Antonietta. Da loro vengo a scoprire che la Star da qualche anno è diventata spagnola. Spagnola, e chi lo sapeva? È proprio vero che siamo connessi con il mondo in tempo reale e poi non sappiamo le cose che succedono a un metro dal nostro naso. O almeno questo è il mio caso. Comunque gli spagnoli, durante il tempo della mia ignoranza, hanno provveduto a decimare i dipendenti (da 500 a 200 è un bel balzo all’indietro, visto che si sta parlando di centinaia famiglie) e a spostare gran parte degli uffici a Milano. La palazzina di tre piani nella storica sede di Agrate, un tempo destinata agli impiegati, è quasi deserta, ma in compenso la società per gli uffici milanesi si sobbarca un affitto di seicentomila euro l’anno. Però ha messo gli operai in cassa integrazione fino a fine gennaio, in modo che l’oneroso affitto lo si paghi un po’ tutti noi contribuenti. Ci mancherebbe, siamo qui apposta.
L’unico reparto che non fa la cassa integrazione è quello che produce il famoso tè e la camomilla Sogni d’Oro. La camomilla va alla grande, a quanto pare. Di certo anche i lavoratori della Star ne fanno ampio uso, datasi la situazione. Dopo aver sentito tante amenità serve anche a me. Ma non è finita. Chiedo ai manifestanti cosa pensano della qualità dei prodotti. Rispondono che è più che buona buona e sono orgogliosi di quello che fanno, o meglio di quello che facevano un tempo quotidianamente e ora non si sa bene quando e per quanto tempo e come.
Poi mi raccontano che ormai le zuppe vengono preparate altrove, essendo la produzione stata spostata. Peccato che nella sede di Agrate c’è un impianto costato quattro o cinque milioni di euro (quisquilie) atto a svolgere tale attività che giace abbandonato alla polvere degli anni. Ma come? Adoro le zuppe e le creme preconfezionate, rappresentano per me uno di quei vizi perversi come andare al fast food o mangiare la pizza surgelata (dopo averla scaldata in forno, a volte anche no) in piedi davanti al lavandino. Come possono farmi questo? Gulp, urge una flebo di camomilla.
Alla fine arriva il colpo di grazia che mi abbatte: scopro con orrore che il brodo Star ormai arriva dalla Spagna. Cosa? Con tutto il rispetto per il know how brodoso degli ispanici, non siamo più ritenuti capaci di fare il brodo? Proprio noi brianzoli, padri putativi del lesso, promotori del bollito misto? Non è possibile, non ci credo.
Il mio cuore di massaia lombarda si spezza. Nel mio frigo c’è sempre il brodo Star, perché il brodo Star può sempre servire, è utile. E ora che ci faccio con questo liquido che viene dalla terra della paella?
Non si tratta di essere contrari alle specialità straniere, di non avere apertura verso la globalizzazione. Ma non tutto fa brodo, cari spagnoli. Non ci penso nemmeno a boicottare i prodotti dello storico marchio, quantomeno per solidarietà con i superstiti lavoratori Star brianzoli. Come faccio a pensare di arrivare ad Agrate senza sentire più nell’aria l’aroma di qualcosa in preparazione (da quando ero bambina è una sfida cercare di indovinare di cosa si tratti)? La cura di tapas e sangria non sta facendo bene alla Star e nemmeno a questa massaia tradita. Fateci tornare nel nostro brodo, per favore.