Stefania Nobile: la figlia di Vanna Marchi parla della sua vita in carcere
27/10/2013 di Redazione
«Io non sono innocente, ma ho finito di pagare le mie colpe». Così a “Domenica Live”, su Canale 5, Stefania Nobile, la figlia di Vanna Marchi che ha da poche settimane finito di scontare la pena di quattro anni per associazione a delinquere e truffa. Alla domanda se si è pentita, l’ex televenditrice ha risposto: «No, io odio i pentiti perché‚ per me il pentito è un collaboratore di giustizia che cerca, incolpando gli altri, di non pagare le proprie colpe». Ed ha aggiunto: “Non ho chiesto né patteggiamento, né il rito abbreviato. Io ho affrontato il mio processo andando a tutte le udienze. Merito rispetto per aver scontato la pena».
STEFANIA NOBILE E LA VITA IN CARCERE – Dopo aver rivisto le immagini che hanno ripercorso il giorno della sentenza, la Nobile ha detto: «Sentire la sentenza mi fa ancora effetto, e mi sembra impossibile essere riuscita a mettere la parola fine. Sono a favore dell’amnistia, dell’indulto, ma soprattutto sono a favore delle carceri migliori, perché‚ le carceri sono una vergogna. Sono una cosa vergognosa di questo Paese, perché‚ è giustissimo che chi sbaglia paghi, ma c’è modo e modo di pagare. Per pagare non c’è bisogno di essere trattati peggio delle bestie e in condizioni sanitarie paurose». «Quando si esce dal carcere – ha proseguito – non è vero che tutti gli agenti penitenziari sono gentili». Ed ha raccontato di essere stata «umiliata in tutti i modi», in una cella senza riscaldamento, di non essersi potuta asciugare i capelli per ore dopo aver fatto la doccia e di essere stata spesso derisa.
INSULTI E ABUSI – «Ad esempio, per colpa della mia artrite reumatoide dovevo tenere le manette un po’ meno strette, ma c’è stato chi si divertiva a stringermele di più. Posso dire che io sono stata trattata peggio». Sul rapporto con la madre la Nobile ha detto: «Mia madre ed io siano state in carcere a Bologna insieme, nella stessa cella per alcuni mesi insieme poi è stata aggiunta un’altra detenuta. Dopo sono stata spostata e ci siamo scritte diverse lettere nelle quali le raccontavo un sacco di bugie. Non potevo dirle che facevo la doccia con le pareti sporche di escrementi delle altre detenute..non potevo dirle che molte detenute abusavano di tranquillanti e psicofarmaci perché‚ a molti faceva comodo che dormissero..come facevo a raccontarle la verità?«. Ed ha concluso: «L’insulto più doloroso è stato sentir dire che ho inventato la malattia per uscire dal carcere. Quando sono uscita non sono andata a Courmayeur, ma sono andata in un centro clinico e soprattutto lasciavo lì mia madre, il mio più grande amore della vita» (ANSA)