Trans-Pacific Partnership, adesso c’è il quadro completo

19/01/2014 di Mazzetta

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SOLO IPOCRISIA PER L’AMBIENTE – La pubblicazione della parte degli accordi relativi all’ambiente e veramente rivelatrice. Se infatti nella prima parte il regime del TPP porterebbe i governi a pagare forti penali se non apriranno i mercati e non onoreranno gli accordi, nella parte che riguarda l’ambiente non c’è traccia di termini, sanzioni o limiti vincolanti. Una corporation potrà far causa a un governo e chiedere i danni per il mancato adempimento degli accordi perché le regole che garantiscono loro la «libertà» di fare affari sono presidiate da previsioni puntuali, termini inderogabili e penali draconiane, ma niente di tutto questo è stato messo a tutela degli impegni sul piano della tutela dell’ambiente.

L’AMBIENTE INDIFESO – Il capitolo sull’ambiente fa sensazione soprattutto per questo, perché alla data della bozza trapelata e risalente al novembre scorsoal Chief Negotiators’ summit a Salt Lake City,  non è possibile trovarvi termini vincolanti, sanzioni pecuniarie o penali r nemmeno l’indicazione di alcuna autorità superiore che ne giudichi l’applicazione, se ci saranno dei contenziosi dovranno essere risolti attraverso la cooperazione delle parti, che ovviamente nel caso di quelle in difetto avranno ben poco interesse a cooperare, tanto sanzioni non ce ne sono. Unica eccezione la fa la pesca, dove le regole ci sono già da anni e che anche nel TPP è fortemente compresa entro regole severe che risolvono la spartizione delle quote di pesca ad evitare futuri contenziosi, ma che per esempio sorvolano sul bando per il commercio delle pinne di squalo. Che in Asia sono richieste per piatti molto apprezzati e che in Occidente invece fanno gridare alla barbarie e allo spreco di risorse faunistiche già scarse perché gli squali sono pescati solo per le pinne e una volta mutiliati sono ributtati in mare. Mancano così limiti per l’inquinamento, la deforestazione e l’uso di sostanze tossiche. In questo caso i negoziatori hanno avuto comprensione per i paesi in via di sviluppo, ai quali costerebbe troppo adeguarsi a certe pretese. Che poi queste eccezioni vadano principalmente a beneficio delle multinazionali, che in quei paesi potranno fare quello che non è loro concesso altrove, spiega il motivo di tanta comprensione.

ANCORA GREENWASHING – I governi di Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Cile, Giappone, Singapore, Malaysia, Brunei, Vietnam e Peru, che partecipano a vario titolo ai negoziati sono indicati quindi come l’ostacolo all’impegno dei promotori americani nella tutela dell’ambiente e tutta questa parte dell’accordo per ora si risolve in affermazioni di principio lasciate alla volontà dei partecipanti. Il che è un problema per gli americani più di quanto non possa apparire una accordo che si nei fatti si risolve in un esercizio di greenwashing, tanto per far vedere di preoccuparsi dell’ambiente e fingere di aver preso provvedimenti utili alla sua tutela.

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