Tu per me sei la volta del cielo
16/09/2014 di Clementina Coppini
È da molte settimane che penso a te ogni minuto. Non avevo mai pensato a nessuno così tanto, tantomeno a te. Ne avrei avuto motivo, forse. Ma chi si ricorda i motivi per pensare, quando dalla mattina alla sera si ha altro a cui pensare, anzi quando si hanno solo una serie di cose da fare (altro che pensare)? Ho dimenticato di pensare a te malgrado venticinque anni insieme, due figli, casa, lavoro, auto, gatto, amici, carriera, delusioni, successi, preoccupazioni, gioie. Gioie tante, preoccupazioni pure. Non sono una scusa tutte queste cose che insieme mi avevano fatto perdere di vista il progetto originario, che era quello di amarti (e rispettarti, ma che rispetto c’è nel dimenticarsi di amare ogni giorno chi ha scelto di passare la sua unica vita vicino a te?).
Scrivo e mi scenderebbe volentieri qualche lacrima, ma io, lo sai, non sono una che piange. Ora che mi sono decisa a guardarlo (da quando ti ho visto attaccato a quella macchinetta ho dovuto per forza ed è vero che certe stanze dotate di certe attrezzature mediche sembrano fatte apposta per proiettare tra le sinapsi il film del proprio vissuto) non posso fingere che sia stato giusto e paritetico, il nostro passato. Sì, ho tirato grandi i nostri figli, ho pulito la casa e fatto la spesa, ho lavorato, ma non c’è paragone con quanto hai fatto tu, accettando di condurre la vita che hai condotto per me. Grazie a te ho avuto tutto il tempo di seguire la mia passione e si vede dalla quantità di cose che ho potuto liberamente fare e che sono la più evidente prova della mia colpa. Ho pensato a tante cose, ho combattuto tante battaglie, mi sono lamentata del tempo che mi veniva tolto a causa delle molte incombenze. Tutto ciò l’ho fatto sempre senza pensare a te. Che invece macinavi la strada avanti e indietro e che avevi fatto della tua vita un continuo dovere, che tempo per te non ne hai mai avuto, da anni e anni e anni della tua vita, che correva via come la mia, mentre io pensavo solo a quello che mi era stato tolto e mai a quello che mi era stato dato in termini di ore da perdere allegramente e di soldi in tasca. Ora lo vedo. Per fortuna non è troppo tardi, ma qualcosa purtroppo si è rotto. E non sono io, tutta intera (o quasi, a parte qualche pezzo di poca rilevanza asportato di recente) come sono, ma è il tuo cuore, che si è spezzato per la fatica.
SACRIFICIO – Quello che tu hai fatto per me e per i nostri figli ha un nome troppo abusato. Si chiama sacrificio e tu, che non ami compiangerti né fare il martire, hai percorso centinaia di migliaia di chilometri in macchina ogni giorno per andare a lavorare e tornare sempre a casa. Hai voluto lasciarci comodi nella nostra bella casa, non volevi che si spostassimo vicino al luogo dove lavori, che è lontano, tanto lontano dalle mie amicizie, che ho potuto coltivare, dal mio lavoro, che ho avuto occasione di svolgere in pace. Sei stato più che un pendolare: tu sei stato un migrante, in giro a darsi da fare per portare a casa il pane. Diverso dal migrante hai una famiglia che non ti è mai stata riconoscente, che riteneva tutto ciò che riceveva in dono cosa dovuta. Come dici tu, quando uno cerca di essere saldo e di arrangiarsi nessuno infine gli consente una debolezza. Le debolezze cavalcano nelle riserve di caccia dei deboli, i forti non posso zoppicare mai, non hanno il diritto di inciampare né di cadere. Così tu andavi avanti e indietro ed eri stanco e io vedevo che eri stanco ma mi sentivo stanca anch’io (ora capisco quanto lo fossi meno di te) così non ci facevo caso. Non volevo farci caso, forse, per non dover affrontare la stanchezza di un altro oltre alla mia.
9,30 DEL MATTINO – Non pensavo a te nemmeno quella mattina alle nove e trenta, quando mi hai chiamato per dirmi che eri al pronto soccorso con un infarto. Ero a 350 chilometri da te e stavo per andare in spiaggia (mi vergogno a dirlo, ma è così. Stavo pensando a me stessa, tanto per cambiare). Sono corsa da te e per ogni singolo metro ho pensato a cosa ti stava succedendo mentre eri solo con la paura di morire. Più tardi, quando sono arrivata, mi hai detto che non avevi avuto nemmeno per un attimo quel timore. Eri nell’unità coronarica, tutto pieno di fili, con la faccia stravolta, segnata da occhiaie profondissime. Sei rimasto lì cinque giorni. Due giorni dopo la dimissione dall’ospedale, dopo aver scoperto che il tuo cuore non aveva avuto danni irreversibili, ti ho visto tornare al lavoro, perché tu sei un uomo non comune. Mi ero dimenticata anche questo, ci credi?
SCIOCCA IPOCRONDRIA – Durante la degenza e la prima convalescenza ne ho sentite di ogni. Ho sentito con le mie orecchie persone informarsi su come stavi solo come clausola per introdurre il favore che stavano per domandarti, per continuare come al solito a parlarti dei loro problemi. Ho sentito gente dirti che a loro non sarebbe mai accaduto quello che è successo a te perché fanno una vita senza stress e vanno in bici. Ho visto persone che dicevano di volerti bene sopra ogni cosa (lo dicono ancora, gli ipocriti), mentre eri da un solo giorno attaccato a tutti quei fili e la prognosi non era sciolta, salutarti e partire per il mare. È normale lasciare quella che sostieni essere una parte di te nell’unità coronarica per seguire il richiamo dell’ombrellone? Una persona da sempre vicina si è prenotata una serie di esami di controllo: non capisco la gente che approfitta delle disgrazie altrui per sfogare la propria ipocondria, è un altro modo per pensare solo a se stessi di fronte ai mali del mondo. Mi viene sempre in mente quando avevamo perso la nostra vecchia gatta e la vicina aveva chiuso il suo micio in casa per non perderlo. Una volta ritrovata Mafalda anche lo Sguiscio aveva potuto tornare a uscire in giardino. Quanta stupidità c’è nel mondo? Più della somma dei peli di tutti i gatti, questo è certo. Non giudico nessuno di loro, perché io mi sono comportata peggio di tutti: ho lasciato che fossi eroso dalla fatica con leggerezza, con aerea leggerezza. Questa è la mia colpa.
UN QUALUNQUE VENERDÌ – Siamo tutti talmente concentrati, anzi no, avvoltolati intorno alla nostra pochezza che non ci rendiamo conto di niente, che non ci interessa niente oltre a noi e al nostro infinitesimo nulla quotidiano (o, per dure una parola cretina, esistenziale). Io per prima. Io e questo maledetto io, pronome personale che devasta la vita del prossimo, attraverso l’abuso del quale consumiamo chi ci ama. Senza discrimine, senza compassione. Volevo che tu fossi forte, non mi interessavano le tue debolezze, non erano un mio argomento elettivo. Così ho passato del gran tempo a compatire gente a caso (me compresa) e sono stata distratta (e, per usare un termine fuori moda ma che andrebbe riscoperto, empia) nei tuoi confronti. In quelle cinque notti senza sonno mi sono chiesta centinaia di volte come abbia potuto non amarti mentre tu all’alba salivi in macchina e partivi, senza nemmeno fare colazione. Come ho fatto a non ricordarmi di amarti per tutti questi anni non lo so, ma l’ho fatto. Ho contato i minuti dei sei giorni che sei rimasto in ospedale. Mi sono dimenticata di amarti malgrado tutto quello che ho imparato da te. Peggio ancora, mi ero dimenticata anche quanto ti devo dal punto di vista delle cose che so. Sono troppe, si affastellano in una lunga lista. Se dovessi riassumere con un’immagine soltanto, direi che da te ho imparato che nella vita bisogna fare come gli astronomi che stanno al telescopio a cercare ogni giorno nuove stelle. Con umiltà e dedizione (e spirito di sacrificio), non perché altrimenti le stelle le trovano gli altri, ma perché il firmamento è lì per essere guardato, a prescindere dalle stelle che si scoprono. Tu mi hai insegnato a scrutare il cielo e io, sciocca, con il mio sciocco naso rivolto verso l’alto, non ti rivolgevo più troppi sguardi, pensando che il cielo fosse più importante di chi te l’ha insegnato. Per poi, la mattina alle 9,30 di un venerdì, scoprire che senza te al mio fianco si spegne la volta del cielo. Perché tu per me sei la volta del cielo.