Un autista di ambulanze
08/05/2011 di Pietro Marmo
Ecco, finalmente trovo un po’ di pace
La mia bimba mi tira dei calci notevoli ma il pallone che la ospita li attutisce e a me arrivano come dei colpetti affettuosi, come qualcuno che mi tocca e poi gioca a nascondino. Non mi va di raccontare a mia moglie cosa è successo, non voglio metterle altri pensieri sui rischi che corre e sulle brutture del mondo in cui questa bimba sta venendo ad abitare. Per questo le racconto a voi.
Sono un autista di ambulanze e devo dirvi che all’inizio il lavoro non mi piaceva molto, mi piaceva moltissimo. Sono sempre stato appassionato di auto, di guida e poter guidare veloce senza dover rispettare alcuna regola in città tra file di auto che si aprono come fa Jim Carrey in “Una settimana da Dio” è una cosa spettacolare. E poi mica per scherzo o per una scommessa ma per la cosa più nobile che si possa pensare: salvare la vita delle persone. Così all’inizio mi recavo a lavoro carico, convinto di poter salvare ancora vite con la mia abilità, con la mia lucidità di guida, con quella capacità di guadagnare secondi preziosi da consegnare ai medici, a coloro che quei secondi bramavano per poter compiere i loro miracoli. Ma poi le cose vanno diversamente: non sempre si riesce a salvare una vita e tante volte si arriva tardi perché la chiamata arriva tardi o perché non si può camminare sui muri e le file restano chiuse e sbarrate per tanto, troppo tempo. E se arrivi tardi quando vai a prendere un malato in qualche modo non te ne accorgi, torni solo a mani vuote e puoi anche permetterti di non pensarci, quando il malato è dentro e non riesci ad arrivare all’ospedale è tremendo: senti le grida disperate di chi soffre e non ce la fa più, di chi gli sta vicino e vede la vita scorrere via proprio per quei minuti che tu non riesci a guadagnare. A volte torni a casa stanco, distrutto e, prima o poi, decidi che o diventi più duro oppure devi cambiare lavoro. E io mi sono adeguato come tutti, ho cercato di fare il mio meglio ma ho cercato di pensare ai pazienti come a niente più che dei pacchi da portare da una parte all’altra della città il più velocemente possibile.
Ma a volte le urla sono troppo alte e proprio non si riesce ad essere indifferenti. E poi, da quando c’è lei, tutto è cambiato. Da quando quella piccola macchia in una ecografia è diventata un esserino con tanto di mani e piedi e colpi di ali che si sentono sul pancione nulla è più come prima. Da allora quando porto un bimbo (e dio mio quante volte succede) vado in panico, come se lì ci fosse lei, come se il suo viso che non conosco si riflettesse su quello della povera creatura che devo portare via. Così è successo anche domenica, maledetta domenica, in cui la città era paralizzata dalla beatificazione di un papa e dei lavoratori che sono sempre di meno. Quando mi hanno chiamato per andare a prendere un neonato da un ospedale per portarlo ad un reparto speciale del Bambin Gesù ho pensato che non poteva succedere proprio a me, proprio quel giorno. Ho parlato con i colleghi, ho parlato con la radio e mi hanno confermato che non c’era nessuna ordinanza che ci permettesse di evitare la zona di S.Pietro. I burocrati troppo impegnati a spartirsi le loro torte si erano dimenticati di cambiare i percorsi obbligatori (perché noi per legge non possiamo che passare attraverso dei percorsi ben precisi) e quindi ci saremmo ritrovati proprio vicino alla piazza. Non c’era tempo per protestare e ho dedicato davvero tutte le mie energie alla guida, davvero sono arrivato lì come un pilota di Formula 1 ai box ma non ho potuto fare niente quando, ormai vicini alla destinazione, ci siamo trovati un muro di persone. La sirena non mi è sembrata mai così alta e mai così inutile: non si spostavano. Allora mi sono avvicinato quanto più possibile, sono arrivato a toccarli, a spingerli con il paraurti e lì è successo l’incredibile: persone che veneravano un nuovo santo hanno cominciato a picchiare sull’ambulanza e sull’auto dei genitori che ci seguiva. Non ci potevo credere, non potevo credere che quella folla minacciasse me, che io potessi in qualche modo rischiare la mia vita per salvare quella di un bimbo. Volevo scendere ma il mio collega mi ha detto di pensare al mio di figlio e di spegnere il motore. Abbiamo chiamato in centrale e dopo un po’ sono arrivati dei vigili che, io non finirò mai di ringraziarli, si sono fatti in quattro per farci passare scuotendo la testa per il comportamento della gente, per il fatto che eravamo lì e non in una qualsiasi altra strada, per il fatto che appena nati già si deve combattere per sopravvivere.
Alla fine siamo passati e siamo arrivati al nostro antro di disperazione con il bimbo vivo e con i genitori distrutti. Me lo hanno detto, alla fine mi hanno chiamato per dirmi che il bimbo è fuori pericolo e che ci sarà una inchiesta per capire i responsabili (che ovviamente non siamo noi). Mi basta questo per rilassarmi un po’ e aspettare che, dal pancione che accoglie la mia testa come un cuscino, arrivi una carezza di una vita che arriverà piena di speranze di un mondo migliore.
Il giorno della beatificazione di papa Wojtylia un’ambulanza che portava un bimbo nato con una grave malfunzione è stata presa a calci dalla folla presente a S.Pietro (http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=147653&sez=HOME_ROMA). Nessuno aveva modificato il percorso obbligatorio delle ambulanze per recarsi al Bambin Gesù e alcuni non avevano pensato che per guadagnarsi il Paradiso bisognerebbe non mandarci anzitempo una creatura innocente