Je suis Valentino Rossi. E Zidane, Maradona, Totti, Senna, Cantona.

Che ne sapete voi di cosa vuol dire andare al massimo e avere alle calcagna uno che non vuole vincere o fare del suo meglio – come invece, va detto, fanno Iannone, Lorenzo e tanti altri valorosi concorrenti -, ma solo danneggiarti. Sta lì a stuzzicarti, a innervosirti, a sfiorarti e a fare tante piccole irregolarità. Fino all’ultima testata, con tanto di manubrio tra la tua gamba e la carena della tua 46. Potresti cadere, diventeresti la vittima. Allarghi la gamba, per un riflesso condizionato e sì, forse anche un po’ per rabbia. Come quando allontani una mosca fastidiosa. E lui, fuori da tutti i giochi, va giù, che in fondo è quello che gli è sempre riuscito meglio. E tu ti giri, incredulo, e lo sai che tutti aspettano solo di puntare l’indice, toglierti il sogno, danzare sul tuo cadavere. Persino quello Jorge Lorenzo che è meglio di come si disegna e lo disegnamo ma non ha resistito a fare il moralista.

Che ne sapete voi di cosa vuol dire essere Eric Cantona, sempre nell’occhio del ciclone, insultato da un cretino, e alla fine perdere la testa e reagire? E pagare, in silenzio, tornare e dimostrare al mondo di essere ancora il migliore. E salutare tutti, dopo, perché quando si trattava di essere appoggiato, dopo tutta la gioia regalata, non c’era nessuno con te.
Che ne sapete voi di cosa vuol dire essere Diego Armando Maradona, farsi spezzare una caviglia e diventare invalido al 20% alla gamba che ti consente di fare magie uniche, e ritrovarti lo stesso bastardo, Jon Andoni Goikoetxea Lasa, che prova di nuovo a troncarti la carriera. E tu per l’unica volta nella tua vita, reagisci. Perché è troppo, perché il talento è sempre odiato dalla mediocrità. Perché lo sport è la tua vita.

E se pensate che il mio sia nazionalismo e tifo per l’italiano al centro del “gombloddo iberico”, sappiate che io ero in piazza a esultare per il Mondiale 2006, ma lì a Berlino ero con Zinedine Zidane. Perché per più di 100 minuti si è sentito insultare da un collega che solo così poteva fermarlo. Con la slealtà, nel modo più squallido e offensivo. E lui a testa bassa, a un certo punto non ci ha visto più. Ma come Marquez, quel Materazzi per i buonisti, i politicamente corretti, è diventato un eroe, e lui il cattivo.

Che ne sapete voi, ancora, di cosa vuole dire essere Francesco Totti contro la faccia tosta di Poulsen, che scese in campo solo per farlo uscire fuori di testa. E dedicare a quel omuncolo l’unico gesto degno della sua caratura morale.
O di essere Ayrton Senna, con Alain Prost che ti fa la guerra e che nella scuderia ha tutti dalla sua parte, ma tu sei il campione, il talento puro. E nella gara precedente lui, con quel cinismo che fa solo finta di essere elegante, ti ha fatto una scorrettezza non sanzionata. E non è la prima. E tu sai di aver subito un’ingiustizia lungo tutto una stagione in cui tutti ti hanno giocato contro, Federazione e squadra. E non ce la fai più. E in quella curva lo parcheggi, quel Professore che tutti incensano perché, a differenza di te, sa accattivarsi giornalisti e potenti.

Che ne sapete voi di quanto si può amare uno sport e di quanto sia bello vincere. E di quanto sia maledettamente doloroso e ingiusto sopportare la mediocrità di chi lo vampirizza ed è là solo per soddisfare la propria meschinità. Di chi gode più della tua sconfitta che della propria vittoria, di chi ti insulta perché non sarà mai nessuno fuori da quello stadio o circuito, di chi è pronto a spaccarti gamba e speranze perché conosce solo il linguaggio della brutalità, per chi pensa che stare su un campo non sia regalare bellezza e felicità, ma insultare e massacrare di falli e provocazioni i campioni, perché con altre armi non potresti mai essere alla loro altezza.

Valentino Rossi poteva, come sempre, controllarsi e riuscire a uscirne alla grande. Ma quando insegui il sogno più bello sei fragile. Quando sai che qualcuno che credevi amico, vuole rubartelo, diventi vulnerabile. E hai paura, e senti l’ingiustizia montare su di te.
Sì, Vale, l’ho vista l’immagine dall’elicottero. E sì, hai ragione, ha cominciato lui e pure in quel frangente è il primo a toccarti. Hai ragione, ma l’avresti anche se quel calcio fosse arrivato come una reazione a tutta la gara del tuo avversario, senza una diretta provocazione in quel momento. Perché ha insultato lo sport che tu rendi arte, e lui bagarre da circo.

Gareggia a Valencia, campione. Prova il miracolo. In casa loro, di quei tre che insieme non fanno uno come te. Tenta, fosse solo per noi che comunque la rimonta che farai – perché la farai, so che la farai – la racconteremo ai nipotini in ogni caso. Perché per noi, il Mondiale, l’hai già vinto.

E perché loro non saranno mai Valentino Rossi, Diego Maradona, Eric Cantona, Francesco Totti, Zinedine Zidane o Ayrton Senna. Loro saranno sempre e solo comparse, imbucati nel pantheon dei campioni. Fagli pure iscrivere il loro nome sull’albo d’oro, con una vittoria figlia della meschinità. Tu, il tuo, ce l’hai inciso nel Mito. Comunque andrà.

Je suis Valentino Rossi.

P.S.: Ah, se dovete uscirvene con la sua dichiarazione dei redditi per insultarlo, uscite la vostra prima.

Share this article