A Venezia il Pasolini di Abel Ferrara passa tra applausi e critiche
04/09/2014 di Boris Sollazzo
Abel Ferrara che racconta Pier Paolo Pasolini. Sostanzialmente un salto triplo carpiato senza rete. Poteva essere un capolavoro, nel caso il cineasta americano fosse stato in gran forma e avesse scelto il meglio del nostro intellettuale, si è rivelato invece un’occasione mancata.
L’ACCOGLIENZA DI PASOLINI– Va detto, però, che la critica si è divisa e che non per tutti questo ambizioso progetto di raccontare l’ultimo giorno di vita dell’artista bolognese, il 2 novembre 1975, è stato un fallimento. C’è il sospetto, però, che questo sia dovuto al fatto che alcuni momenti del lungometraggio sono notevoli, ma solo per esclusivo merito di PPP. L’inizio, dedicato alle immagini di Petrolio, le parole del regista, giornalista e scrittore che le accompagnano, infine l’intervista di Furio Colombo che si risolve in un monologo di un Willem Defoe che riesce a rendere credibile la sua interpretazione, per mimesi e immedesimazione, nonostante la lingua inglese (in Italia, però, sarà doppiato da Fabrizio Gifuni) abbia un effetto straniante sullo spettatore. Quando invece è Abel Ferrara a prendere le redini della narrazione, che alterna momenti della sua quotidianità – gli appuntamenti fissi con gli amici (tra gli altri Ninetto Davoli interpretato da Riccardo Scamarcio, Laura Betti impersonata da un’improbabile Maria De Medeiros) – a inserti del film che stava progettando (e che PPP immaginava di portare sullo schermo con De Filippo), allora là il lungometraggio si sgretola.
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(Foto copertina e articolo Gian Mattia D’Alberto / lapresse)
LA ROMA DI FERRARA E PASOLINI – Potremmo persino definirlo un on the road capitolino, questo Pasolini, visto che il nostro, tranne due brevi puntate a casa si muove per una città riconoscibile ma che non riesce a divenire personaggio. Ferrara ha qui il pregio della brevità – l’opera dura un’ottantina di minuti -, ma forse anche il difetto della semplificazione. Dovendo riferirsi a meno di 24 ore, ci ritroviamo tra le mani un intellettuale innamorato delle sue posizioni meno interessanti e, forse, più demagogiche e dedito più alle sue emozioni, siano quelle familiari oppure quelle passionali, come nell’ultima parte in cui cerca i suoi ragazzi di vita. Per l’ultima volta.
Non sentiamo mai decollare l’opera, non ritroviamo la potenza e la lacerazione che portavano immagini e parole di PPP, ci limitiamo ad accompagnarlo nella sua normalità. Il che potrebbe essere anche interessante se non fosse che, soprattutto in Italia, l’uomo e l’intellettuale si è ormai trasformato in icona, citato spesso a sproposito e ancora ingombrante nel nostro immaginario. Il solitamente audace Abel qui, forse persino spaventato dall’impresa, ci offre immagini ordinarie, una regia didascalica, una scrittura che sembra quella di uno studente di cinema. Finché prova, però, a girare pezzi di un suo Pasolini, condannandosi a un confronto impari.
NESSUNA NOVITA’ SULLA MORTE DI PASOLINI – Ci si augurava che almeno ci fosse un colpo di coda alla fine, una posizione forte sull’omicidio tuttora discusso dello scrittore e cineasta. Niente di tutto questo: a livello visivo così come d’indagine, Abel Ferrara rimane sui binari di una stanca ufficialità. E allora di questo prodotto troppo televisivo rimane solo un ottimo Defoe, qualche inquadratura alla Ferrara (bella quella della ricerca di un ragazzo per la serata, quando carica in macchina Pelosi) e un tentativo rispettoso, affezionato ma ben poco riuscito. Troppo poco per due geni in un film solo.