Viaggio nel paese di Rischiatutto, Daniele Luchetti “E ora vorrei una serie tv”

Daniele Luchetti è un grande regista di cinema, di quelli alla Peter Weir, per intenderci, capace di parlare al pubblico senza assecondarlo, di guardare la realtà senza inseguirla. Di non chiudersi dietro il recinto dorato di convinzioni e convenzioni e di usare una grammatica comprensibile a tutti, senza per questo rinunciare al fatto che il suo linguaggio possa essere complesso e raffinato e contemporaneamente immediato. Daniele Luchetti ci ha fatto indignare con Il Portaborse, entusiasmare e vibrare con La scuola, entrare dentro le nostre contraddizioni e le nostre inquietudini con Mio fratello è figlio unico. Ci ha fatto fare i conti con chi siamo, e dove, ne La nostra vita (e chi scrive ancora piange quando Germano canta Vasco), ci ha riportato indietro nel tempo e dentro al cuore matto di chi ama con Anni felici. E ora, in tv, su spunto di Fabio Fazio, si dedica allo spin-off documentario, in 4 puntate, di Rischiatutto. A partire da sabato 1° ottobre, alle 20.30, stanno andando in onda ogni settimana, su Rai3, le storie del Viaggio nel Paese del Rischiatutto, un ritratto dell’Italia di oggi attraverso i candidati concorrenti alla nuova edizione del mitico format. Un catalogo di tipi, ma mai di stereotipi, di persone che non rinunciano a essere personaggi, di emozioni e passioni, indagate dal cineasta come da Paolo Borraccetti, Maria Tilli e Matteo Berdini con Michele Carrillo. Grazie alle riprese di Timoty Aliprandi, Giacomo Del Buono e Luca Gennari e alla presenza produttiva di Red Carpet. Luchetti è il capitano-allenatore di una squadra giovane, agguerrita, curiosa. Come lui.

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Come nasce Viaggio nel Paese del Rischiatutto?

Fabio Fazio mi ha chiamato vedendo i provini di Rischiatutto. Valutava i concorrenti e mano a mano si faceva strada in lui la voglia che alcuni personaggi voenisser raccontati più a fondo. L’ha condivisa con me, che in quel momento avevo altri progetti e, forse, un po’ di pudore nell’affrontare un’avventura così diversa come la tv. E il documentario. Poi abbiamo pensato all’ipotesi di mandare giovani filmmaker in missione e di ritagliare per me un ruolo di supervisore, una sorta produzione creativa e narrativa. Il risultato? Un dialogo molto bello, aperto e proficuo con questa bella generazione di talenti, con cui abbiamo inventato un processo creativo: mi spedivano il girato, montavamo, aggiustavamo il tiro, a volte tutto era perfetto. E poi alla fine, in montaggio, troviamo un senso nella costruzione e nell’affiancamento delle storie.

Come Salvatores, anche lei fa il suo viaggio in Italia. Un modo per non rimanere chiuso nei salotti?

Intanto volevo imparare: io non sono uno di quelli che fa film per insegnare agli altri ma per scoprire qualcosa di nuovo. Curiosare nel mio paese mi piace, credo di averlo sempre fatto con il mio cinema. In più, non essendo un documentarista, mi sono buttato in questo lavoro con l’umiltà del dilettante, anche perché in più c’erano da apprendere i codici televisivi. Poi, per fortuna ci siamo un po’ scordati tutto, abbiamo preso la nostra strada, realizzando qualcosa di diverso.

Io sono terrorizzato dal rimanere rinchiuso in una terrazza e un’esperienza così è fondamentale per me. Ricordo che da giovani rimproveravamo ai grandi autori classici di non prendere più l’autobus: smettere di vivere il proprio paese rende il cinema sterile, intrufolarsi nella vita degli altri è il modo migliore per rimanere vivi, non è il potere del regista poter curiosare nelle case in cui non è mai entrato?

Cosa ha cercato in questo viaggio?

Volevo una visione, una narrazione onesta e condivisa, con una pulizia di sguardo che non fosse manipolativa. Non volevo l’Italia del Grande Fratello, ma quella del Rischiatutto. Poi ci siamo scordata pure quella: quella domanda – perché partecipi a questo quiz? – in fondo, aveva solo una risposta: giocare e vincere. Volevo tutto il resto, qualcosa di più profondo. Ecco, di questi quattro sabati spero rimanga agli spettatori la bellezza e l’emozione che ha colpito noi: partire con una domanda per poi tornare con una risposta altra e oltre. Anzi tante risposte inaspettate.

Il tutto, però, evitando gli stereotipi

Lo stereotipo è una semplificazione frequente nella tv, è una scorciatoia: io volevo vedere se c’erano stravaganze normali e normalità stravaganti, come il naturopata un tempo democristiano, così colorato e particolare. Cercare in controluce chi siamo, chi si nasconde tra di noi. Chi ha una marcia in più e magari nel palco di questa società dello spettacolo rimane dietro le quinte.

La televisione per lei è una gita o un nuovo viaggio parallelo al cinema?

Le energie creative importanti ora sono in tv e mi sembra che la concorrenza di Sky abbia migliorato il piccolo schermo e il suo pubblico, offrendo altre possibilità, mostrando a tutti che il questo mondo può dare di più. E meglio. Non so come, ma voglio lavorarci ancora. Io sono uno spettatore appassionato delle serie tv, le amo molto, e credo siano un’opportunità e una risorsa straordinarie.

Mi sta dicendo che nel suo futuro c’è una serie tv?

Direi di sì. Mi piacerebbe tantissimo che mi chiamassero a farne una. E se non lo faranno, me la inventerò io.

Non un Papa però!

Di Papi ne abbiam fatti fin troppi (ride, ha diretto Chiamatemi Francesco – ndr)!

Lavorare con i giovani. Per lei è sempre stata anche una volontà politica?

Una volontà e un desiderio. Certo, è anche politica: per troppi anni c’è stata una disastrosa frattura generazionale in Italia. Ma è anche un atto di egoismo: al Centro Sperimentale imparo più di quanto insegno. Devo restituire in qualche modo ai giovani (lui è un classe ’60 – ndr).

Facendo questo film con questi ragazzi ho imparato cose che non sapevo su metodi di lavoro nuovi e ho toccato con mano grandi talenti con cui poter lavorare o anche solo da ammirare. E vorrei farlo ancora di più: magari mi arrivassero sceneggiature brillanti, non voglio territori sicuri, il pubblico ha 20 anni meno di me e ho bisogno di chi mi aiuti a parlargli. Devi ascoltare, guardare gli altri, non smettere di essere curioso se vuoi fare il mio lavoro bene. E per farlo, non devi chiuderti nelle terrazze. Men che meno con i tuoi coetanei!

 

 

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