Vivere e morire per lavoro

Che notte quella notte, sulla linea 5 dell’acciaieria di Torino della ThyssenKrupp. Un lavoro duro e massacrante. Specie se, per qualche euro in più di straordinario, lo fai da dodici ore. Un lavoro pericoloso, specie se i sistemi di sicurezza non sono perfetti; se gli estintori non sono carichi, se gli idranti funzionano male, se il personale specializzato è poco o assente.

Rogo-Torino

Che notte quella notte, per Giuseppe, Angelo, Roberto, Rosario, Rocco, Marzo, Bruno e Antonio. Investiti dall’olio bollente, sulla linea 5 dell’acciaieria; bruciati vivi. Escono dal rogo increduli, e poi iniziano a morire tutti; solo Antonio si salverà. Proveranno perfino ad incolparli dell’accaduto, mentre l’unica loro colpa e di essere schiavi del bisogno, di esser costretti a lavorare in condizioni al limite senza fiatare. Perché lavorare si deve, se si vuole vivere.

Che notte quella notte. Come altre notti, e altri giorni, in cui per lavoro ci si ammala, ci si fa male; o magari si muore. Ma il lavoro è importante, anzi indispensabile. E allora puoi passare sopra i cadaveri di chi per lavoro muore, perché gli impianti non sono a norma, le emissioni sono veleni che ammorbano l’aria. E si deve accettare, chiudere un occhio. E se qualcuno ci lascia la pelle pazienza, amen. In fondo di qualcosa di deve pur morire, no? E allora è meglio voltare la testa, chiudere gli occhi, ingoiare e lavorare. Senza parlare, senza protestare; far finta di non esserci, o se ci sei di dormire.

Dormire. Forse sognare. Sognare un mondo dove per lavoro si vive. Senza morire.

(I più attenti si saranno accorti che questo è lo stesso identico post dell’anno scorso. Non è un caso: perché nulla è cambiato, e perché è bene non dimenticare)

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