Addio a Cossiga, il presidente dei segreti di Pulcinella
17/08/2010 di Alessandro D'Amato
Muore il Gattosardo: negli ultimi venti anni ha animato la politica italiana con la sua ansia dichiaratoria e una verve creativa degna del miglior Bagaglino
“Lo zombie coi baffi” (Achille Occhetto), “l’inquisitore stalinista” (il magistrato Galloni), “Un boss di provincia” (Ciriaco De Mita). E ancora: “La strage di Bologna? Fu un incidente della resistenza palestinese”. “Tutti gli ambienti democratici d’America e d’Europa sanno ormai bene che il disastroso attentato dell’11 settembre è stato pianificato e realizzato dalla Cia americana e dal Mossad con l’aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i Paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq sia in Afghanistan”. Tutto si può dire su Francesco Cossiga, tranne che, da un certo punto in poi della sua vita, si sia risparmiato con le parole. Non sappiamo se, come il Citizen Kane di Orson Welles mormorava Rosabella, anche lui è morto mormorando qualche parola che servisse a spiegare i molti misteri in cui ha sempre dato l’aria di voler far sapere di essere coinvolto (la morte di Giorgiana Masi, l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, la fantomatica Stay Behind), ma sappiamo per certo quando si trasformò da grigio inquilino del Quirinale a grande picconatore della politica italiana.
GLADIO MON AMOUR – Cossiga diventa presidente della Repubblica nel giugno del 1985: è il più giovane italiano mai salito al Quirinale e prende 752 voti su 959. Un plebiscito, o quasi. Quando si dimette, il 25 aprile del 1992, lo sostengono il Movimento Sociale Italiano dell’allora giovanissimo segretario Gianfranco Fini, e il Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi, che aspira, come tanti, a prenderne il posto. Tutti gli altri lo odiano di un odio genuino e palpabile, che dà adito anche ad alcune clamorose contestazioni di piazza alle quali lui risponde con piglio belluino (famoso il suo “Non ho avuto paura di voi nel ’77 e non ce l’ho oggi”, rivolto a un gruppo di studenti scambiato per componenti di Autonomia Operaia). Nei cinque anni precedenti era stato schivo e silenzioso: secondo alcuni, a causa dei rimorsi di coscienza che si portava dietro dall’epoca del caso Moro, a conclusione del quale si dimise da ministro dell’Interno, non appena venne ritrovato in via Caetani il cadavere del leader dc assassinato dalle Br. Comincia a diventare il presidente picconatore quando Giulio Andreotti, così come aveva fottuto in altri tempi l’agente Z, rivela l’esistenza di una struttura segreta denominata Gladio, a sua volta dipendente dalla Stay Behind Net, una divisione dell’Alleanza Atlantica che mirava a entrare in azione con una risposta militare in caso di invasione dell’Urss, secondo alcuni, oppure se il Pci avesse preso il potere, secondo altri. A parlarne per primo al magistrato Felice Casson fu Vincenzo Vinciguerra, il quale disse che dopo la strage di Peteano fu fatto scappare dall’Italia grazie a una struttura occulta che operava nel paese, composta da militari e civili. Nel 1966 è proprio Cossiga a ricevere, come sottosegretario alla difesa, a sovrintendere Gladio. E in quanto tale il presidente viene chiamato in causa nelle indagini su quelli che lui, in pubblico, si ostina a chiamare patrioti arrivando a chiederne l’equiparazione ai partigiani. Perché Andreotti decide di rivelare l’esistenza di Gladio? Un po’ perché varie inchieste giornalistiche si stavano pericolosamente avvicinando alla verità; un po’ perché dopo la caduta del Muro di Berlino non ritiene che la Nato voglia ancora tenere in piedi la struttura; un po’, soprattutto, perché Cossiga continua a rendergli la vita difficile dal Quirinale, e lui ha preso l’ultimo suo mandato da presidente del Consiglio come un trampolino di lancio per la presidenza della Repubblica, ma per arrivarci ha bisogno perlomeno della non-ostilità dei comunisti. Per questo decide di sacrificare il compagno di partito, ma non di corrente, sull’altare dell’unico vero bene che gli ha sempre interessato: il suo.
L’IMPEACHMENT – Nel dicembre 1991 viene presentata in parlamento una richiesta di messa in stato di accusa per Cossiga; tra i firmatari delle mozioni vi sono Ugo Pecchioli, Luciano Violante, Marco Pannella, Nando Dalla Chiesa, Leoluca Orlando, Diego Novelli. La richiesta viene respinta come manifestamente infondata due anni dopo, mentre le indagini della magistratura susseguite alla rivelazione di Andreotti finiscono con lo spostamento a Roma e la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma, accolta dal Tribunale dei Ministri nel 1994. Nel frattempo Cossiga si è già dimesso, due mesi prima della scadenza naturale del mandato, mentre subito dopo l’omicidio di Falcone sbarra la strada del Quirinale ad Andreotti e Forlani, aprendole per l’allora presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro. E il presidente picconatore ha lasciato la scena dopo essersi messo in contrasto con tutti: il Partito Democratico della Sinistra erede dell’ex Pci e allora guidato da Achille Occhetto, l’intera magistratura che viene accusata di stalinismo e organizza uno sciopero contro di lui e i suoi “progetti” di mettere i pubblici ministeri sotto l’egida dell’esecutivo (un’ideona mutuata dal Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli e che ritorna periodicamente nei programmi elettorali del centrodestra italiano). Ma lui a quel punto ci ha già preso gusto e piccona a più non posso: contro la partitocrazia, contro il parlamento, contro i compagni di partito e gli ex amici, e pure i giornalisti. Nuccio Fava, che al Tg1 aveva anticipato lo scoop di Gladio, viene fatto dimettere da direttore; Bruno Vespa pesantemente richiamato; quelli del gruppo Espresso-Repubblica insultati in toto un giorno sì e l’altro pure. Ma c’è anche chi gli vuole bene: Livio Zanetti del Giornale Radio viene omaggiato delle dichiarazioni del presidente quasi tutte le settimane durante l’edizione mattutina; Paolo Guzzanti ne diventa il biografo ufficiale, e già che c’è ne approfitta per fare scherzi agli amici spacciandosi per lui al telefono. Alla fine del 1991 si calcola che ha parlato per 525 ore sui media, più di qualunque altro politico italiano; e per venti volte si è presentato sui giornali semplicemente per promettere, giurare e spergiurare che non avrebbe più parlato.