Quanta Arabia Saudita c’è nel 9/11?

20/07/2015 di Mazzetta

saudi report

GLI OMISSIS SULL’ARABIA SAUDITA –

Il riassunto del contenuto del rapporto da poco «pubblicato» dice che «non si è trovata prova» che il governo saudita abbia «consapevolmente o volontariamente aiutato i terroristi di al Qaeda», il che è un po’ poco, ma abbastanza, anche se lascia buona parte dei documenti appena pubblicati ricoperti di omissis, tanto che la pagina qui sopra è l’unica intellegibile e in grado di fornire una qualsiasi indicazione. Sono 28 le pagine che sono state coperte dal segreto da Bush e ciascuno può giudicare quanto sia stato rivelato di quei 28 fogli che da anni associazioni e parenti delle vittime chiedono di vedere, finora inutilmente. Altri rapporti hanno concluso con simili e prudenti verdetti che puntano alla mancanza di prove nei confronti del governo saudita, ma l’elefante nella stanza resta il possibile coinvolgimento dei grandi sponsor di al Qaeda nel Golfo, tra i quali inevitabilmente ci sarà qualche membro dell’estesissima famiglia reale o del clero di stato. Un elefante che gli estensori del rapporto non hanno inteso disturbare, si nota ad esempio dal fatto che abbiano scritto che occorrerebbe indagare meglio per escludere un coinvolgimento dell’Iran (!), ma non per l’Arabia Saudita.

saudi report bis

 

L’ARABIA SAUDITA NON HA AIUTATO –

Da chi e come abbiano ricevuto aiuto i 19 attentatori è storia ancora largamente sconosciuta e incompleta, e se si pensa al qatariota Khalifa Muhammad Turki al-Subaiy, accusato di aver finanziato nientemeno che Khalid Sheikh Mohammed e per questo detenuto solo brevemente, si capisce come sia difficile ricostruire i finanziamenti eventualmente giunti dall’Arabia Saudita senza l’aiuto dei Saud e dei loro colleghi, e come sia del tutto impossibile giungere all’incriminazione di un saudita di un certo livello. Occorre infatti ricordare che dopo il 9/11 l’Arabia Saudita ha introdotto un programma di recupero per estremisti e foreign fighter (ma solo se sunniti) e che negli ultimi anni sono state più le domestiche decapitate perché riconosciute colpevoli di stregoneria, che i terroristi d’origine sunnita.

QUELLI CHE C’ERANO E CHE SONO SPARITI –

I sauditi per canto loro hanno fatto gli indignati e hanno preso la massima distanza dall’attentato, tanto che all’inizio sostennero senza convinzione il coinvolgimento di una «potenza straniera» e che ci misero fino al dicembre successivo all’attentato ad ammettere il coinvolgimento di sauditi, più o meno accertato già poche ore dopo l’attentato. Il principe Naif ci metterà addirittura fino al febbraio successivo ad ammetterlo, salvo a quel punto puntare il dito sui «sionisti» presenti al Congresso e quelli che potrebbero essere dietro il 9/11, che sicuramente si è rivelato vantaggioso per Israele. I sauditi però non hanno offerto alcuna collaborazione alle indagini in Arabia Saudita, gli americani non hanno potuto sentire nemmeno Saleh al-Hussayen, un amministratore delle moschee della Mecca e Medina che si trovava negli Stati Uniti con la moglie da tre settimane quando, dopo un soggiorno di 4 giorni in un hotel in Virginia, cambiò albergo andando a stare proprio dove due degli attentatori stavano per trascorrere la loro ultima notte. Interrogato dall’FBI finse un infarto e poi volò in Arabia Saudita, dove venne promosso ai vertici dell’amministrazione delle moschee sacre, mai più visto o sentito dagli americani.

QUELLI CHE L’HANNO PAGATA CARA –

Molto peggio è andata ad esempio ad Anwar al-Awlaqī, che invece era cittadino americano di origini yemenite, anche lui imam, erroneamente ritenuto membro di Al Qaeda e possibile successore di Osama bin Laden, ucciso in Yemen il 30 settembre 2011 all’età di 40 anni da un drone, organizzato dal Commando congiunto delle Operazioni Speciali sotto la supervisione della CIA. Poco più tardi anche suo figlio, Adbulrhaman, di 16 anni, verrà ucciso nello stasso modo. Al-Awlaqī non ha mai preso parte alla pianificazione di attentati o di crimini, si è sempre e solo occupato di propaganda e il suo è stato il primo caso di omicidio mirato di un cittadino americano da parte di Washington. Una sorte dalla quale sono al sicuro i qaedisti che hanno trovato riparo in Arabia Saudita, che a meno che non si diano al terrorismo in casa sono in genere abbastanza liberi di muoversi e d’andare e venire dai teatri della jihad. Era così ai tempi della lotta contro i sovietici in Afghanistan negli anni ’80 ed è così ora per quanti si recano in Siria e Iraq e poi tornano a ritemprarsi a casa o non tornano affatto, come il kamikaze che due settimane fa si è ucciso facendosi esplodere in un attacco a una moschea sciita nel vicino Kuwait.

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