Attentato Bruxelles, l’Europa è la nuova Israele. E ci serve un Rabin europeo
22/03/2016 di Boris Sollazzo
Gli occhi lucidi. La stazione della metropolitana del quartiere delle istituzioni europee, colpita. Zaventem, un aeroporto accogliente e moderno, colpito. Due snodi cruciali del mondo moderno: lì arrivano giovani pieni di speranze, politici, professionisti da qualsiasi parte del mondo e in particolare d’Europa, nel secondo fanno scalo in tanti per Africa e Sud America, le nuove frontiere. Bruxelles è una città che per identità e storia è simbolo di unione di una terra divisa che si sforza – sempre meno, purtroppo – di rimanere un solo paese. E lo è di un continente pieno di forze centrifughe di cui si ostina ancora a incarnare il sogno unitario di un continente che ambiva, all’alba di quell’utopia, a essere soggetto unico politicamente, moralmente, culturalmente, socialmente, prima ancora che economicamente.
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Attaccare Bruxelles non solo è più facile, per il terrorismo, Isis o Al Qaeda che sia, per via di un’intelligence mediocre e di forze dell’ordine disorganizzate, in clamoroso debito d’organico e senza l’abitudine a collaborare con l’esterno.
Attaccare Bruxelles è uccidere ciò che desideravamo, volevamo essere, è mettere in ginocchio l’Europa che non voleva essere un’emulazione dell’imperialismo americano o di quello post sovietico, né del colonialismo supercapitalista e senza regole dell’Estremo Oriente o del rigurgito medievale del fanatismo mediorientale. Ma qualcosa di altro, alternativo. E migliore.
Attaccare Bruxelles è attaccare ciò che siamo, ma soprattutto le nostre speranze, i nostri ideali, la parte migliore di noi. Attaccarne l’aeroporto è impedirci di fare ciò che ci rende diversi da amici e nemici: viaggiare. Conoscere, andare oltre, avanti, ovunque.
E noi abbiamo il dovere di non voltare le spalle, proprio ora, a ciò che siamo. Non possiamo, non dobbiamo. L’Europa, ora, è la nuova Israele. Scrivevo, dopo Parigi (perdonate la poco elegante pratica dell’autocitazione)
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Ho vissuto qualche mese in Israele: da oggi, anche noi ogni volta che prenderemo un autobus, metteremo in conto il peggio, convivremo con comunità che in sé hanno almeno una persona uccisa o mutilata dalla follia dei kamikaze
Ma non è solo questo.
Israele era la sfida dell’Europa alle sue colpe, nel secondo dopoguerra. Aveva permesso un genocidio infame, il continente più colto e raffinato, una soluzione finale che non era un’epidemia estemporanea di follia collettiva relegabile a pochi anni, ma il risultato di secoli di persecuzioni, di pogrom, di odio.
L’Europa abdicò, lasciando agli Stati Uniti la soluzione, a imporla, a creare un focolaio di guerra permanente.
Ora, stiamo facendo lo stesso (e con Trump sarà anche peggio, come dice lui stesso). E questo ben prima del 2001 e dell’11 settembre. Ora, non possiamo più permetterlo.
E non solo perché ora prendere la metropolitana, il treno, l’aereo ci farà paura, come succede a Tel Aviv, Gerusalemme o Haifa. O perché ogni giorno le attività quotidiane o le occasioni di divertimento, da una cena fuori a una partita allo stadio, non potranno più essere affrontate da ognuno di noi con spensieratezza. Quando ero in Israele ricordo gli autisti dell’autobus che a ogni capolinea ispezionavano il loro veicolo. Con il rischio di trovare qualche ordigno. Il loro viso, e il nostro, era quello di un tranquillo terrore, se si può usare questo ossimoro. Rassegnazione a viaggiare con accanto la morte. Una paura quotidiana, metabolizzata, che ti cambia dentro. Scampai di poco a un attentato all’Underground Club di Gerusalemme, ho pianto un sodale di molte serate, morto in una discoteca di Tel Aviv, nel 2001. E ricordo gli occhi di Joschka Fischer, che l’esplosione l’aveva vista dalla finestra del suo albergo. E toccò con mane la prossimità della morte per odio, fanatismo. E disse, a caldo, che era anche, forse soprattutto, colpa nostra (di noi europei, di noi occidentali), che dovevamo fare qualcosa. Ci provò, non ci riuscì.
Noi dobbiamo reagire, dobbiamo riuscirci. Non con armi, violenza, leggi restrittive. Siamo la nuova Israele, perché qui e ora si gioca la battaglia democratica per un mondo diverso e possibile. Lì, per ora, quella guerra li, ci vede perdenti. E il motivo è semplice: quando si stava per vincere, fu ucciso il generale. Yitzhak Rabin, che generale lo era stato davvero, che con la brigata Harel nel 1948 conquistò Gerusalemme, che da Capo di Stato Maggiore guidò la guerra dei sei giorni, che da primo ministro ideò e diede il via libera al mitico e discusso blitz di Entebbe. Un falco, dunque. Che però al suo ritorno al potere, nel 1992, appianò le divergenze con Shimon Peres e portò avanti con lui otto mesi di negoziati segreti (arrivati fino agli storici accordi di Oslo) con i palestinesi e Arafat. Con tanto di Golan in palio, che era un suo trofeo di guerra (e che gli costò non poco, fisicamente e non solo). Doveva e voleva salvare il suo paese, era un uomo che non pensava al suo mandato, ma alla Storia. Lui che forse era stato strumento in buona fede di troppi errori politici, da militare, volle sanarli. E andare oltre.
Ha sfidato il suo mondo, ha messo in palio la sua vita, è andato oltre la convenienza personale immediata e contingente per rendere il mondo migliore. E lui, ebreo e primo premier israeliano a essere nato in Israele, che da piccolo voleva essere un ingegnere idrico in kibbutz, morì ucciso da un connazionale, un colono estremista. Dall’odio. Non degli altri, ma dei suoi.
Non facciamo lo stesso errore. Troviamo il nostro Rabin, presto (l’algida Merkel che però ora ha capito, nel trattare la questione dei migranti, che il futuro non è la chiusura ma l’accoglienza? Matteo Renzi sulle orme di un’Italia da sempre dialogante, non di rado con ambiguità notevoli, con il mondo arabo?), qualcuno che capisca che per vincere questa battaglia non si devono peggiorare le nostre condizioni di vita e limitare le nostre libertà, ma migliorare quelle altrui e fare in modo che siano liberi di cercare le loro libertà, senza esportazioni coatte.
Leggete gli accordi di Oslo del 1993: non è una tregua, ma un programma di crescita comune e di convivenza. E incidentalmente ricordiamo che allora fu importante il ruolo di Bill Clinton, appena eletto contro Bush sr. E capiamo bene come ora sia determinante fermare Donald Trump e la sua politica di muri e armi.
L’Italia, in questo, ha saputo creare una strada di politica estera, in passato, diversa. Non sempre irreprensibile, va detto. Ma il filo che unisce Mattei e la sua politica non invasiva e di sfruttamento, ma di cooperazione, sui giacimenti petroliferi in Medio Oriente, i compromessi scivolosi di Andreotti o il Craxi di Sigonella, sono forse tra i motivi, insieme a un’intelligence molto (troppo) abile nel barcamenarsi tra l’alleanza con gli Stati Uniti e la prossimità, non solo geografica, con il mondo arabo, per cui qui ancora non abbiamo vissuto le tragedie di Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles.
Non servono sotterfugi, ora, però. Serve una politica alta, ambiziosa, di statisti. Serve un popolo europeo che sia degno del sogno che incarna, proprio a Bruxelles. Non i Salvini. E neanche i Grillo. Che nelle elezioni di ogni stato membro crescono e cannibalizzano le carcasse delle nostre visioni del futuro, ora agonizzanti, seppellite sotto una coltre di odio, razzismo e paura, di qualunquismo e isolamento. Serve un’Europa laica, ben salda sui propri valori, non drogata da rigurgiti religiosi, ma che pretenda di essere rispettata nella sua identità ma che per prima non la tradisca. L’Europa di Ventotene, di Spinelli, Rossi e Hirschmann, del trattato di Roma. Ma anche di chi ci ha creduto, forse per ultimo, Romano Prodi.
Un’Europa che dialoghi con tutti, che non consideri l’Islam un nemico. Perché il mondo non è mai stato salvato da una guerra. Mai. E’ Storia.
Bruxelles è la nostra capitale morale. Non solo (da) oggi. Bruxelles va protetta, per tutto ciò che rappresenta. Bruxelles non può essere liquidata con una bandiera belga ad abbellire le nostre foto su Facebook.
Bruxelles siamo noi. Gerusalemme siamo noi. Gaza siamo noi. Nessuno si senta escluso, da colpe e dalla possibilità di fare qualcosa. Subito, il tempo è già scaduto.
P.S.: a chi sui social sostiene che questo sia un editoriale filoisraeliano ribadiamo l’ovvio: Israele negli ultimi decenni la sua battaglia per la democrazia l’ha persa, non seguendo la lezione di Yitzhak Rabin. L’Europa non deve farlo.