Giorgio Napolitano: «Guai a far saltare l’accordo di Schengen»
06/01/2016 di Redazione
Intervistato nel giorno dell’Epifania, il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano parla ad ampio raggio di politica europea, dell’emergenza migranti nel Vecchio Continente e delle riforme costituzionali in Italia; un’intervista che arriva all’indomani delle decisioni di molti stati europei, quella di sospendere l’applicazione del trattato di Schengen sulla libera circolazione nello spazio dell’Unione. Una strada che, per Giorgio Napolitano, è equivalente al collasso dell’Unione Europea.
GIORGIO NAPOLITANO: “NO ALLE FRONTIERE IN EUROPA, SÌ ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE”
L’ex inquilino del Quirinale dialoga col Corriere della Sera.
Presidente Napolitano, il 2016 si apre con la prospettiva di un confronto teso tra Roma e Bruxelles. Diversi i dossier aperti, «questioni politiche e di regole», le ha definite Renzi. Il quale rivendica che l’Italia «mantiene gli impegni» e chiede che si smetta di pensare al nostro come un Paese «sempre con il cappello in mano». Non sono mancate ruvidezze, da parte di Palazzo Chigi, specie verso Angela Merkel. Una strategia oggetto di critiche. Ma quale dovrebbe essere l’approccio più efficace e conveniente, secondo lei, che conosce bene le procedure dell’Ue e la stessa Merkel?
«Non credo possa esserci “la prospettiva di un confronto teso tra Roma e Bruxelles”. Il presidente del Consiglio ha dato a questo proposito alcuni chiarimenti nella conferenza stampa di fine anno. Sul modo di affrontare questioni e divergenze “bilaterali” tra il governo italiano e le istituzioni europee, ha detto cose assai sagge questa mattina, in un’intervista, il presidente dell’Istituto affari internazionali, Nelli Feroci, sulla base di una sua lunga esperienza in Farnesina e come rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europa. Un’esperienza vissuta, al pari di quelle di molti governanti e diplomatici italiani, con autorevolezza e dignità, e non “con il cappello in mano”».
Il premier insiste anche per un cambiamento nella politica economica dell’Europa, «basata troppo sul rigore e poco sulla crescita». Una richiesta in sintonia con quanto lei disse a Strasburgo, nel 2014, ricordando i sacrifici compiuti dall’Italia. Con chi dovremmo cercare alleanze per far pesare questa linea e ottenere — oltre al «rispetto» su cui Roma recrimina — quella flessibilità che altri Paesi (come la Francia) si sono presi senza problemi?
«È vero che da presidente della Repubblica, rivolgendomi al Parlamento europeo nel 2014, affermai: “Non regge più una politica di austerità a ogni costo”. Da allora questa considerazione è stata sempre più largamente condivisa negli ambienti europei. Da un lato, per quel che riguarda le politiche di bilancio degli Stati nazionali, si sono introdotti criteri di flessibilità alla cui definizione l’Italia ha partecipato e di cui possiamo beneficiare. Il presidente Renzi e il ministro Padoan si sono molto spesi in questo senso. Dall’altro lato e nello stesso tempo, il presidente della Commissione Juncker ha annunciato un importante impegno per un adeguato piano di investimenti. Questi ed altri orientamenti debbono essere portati avanti effettivamente e con coerenza: è interesse non soltanto dell’Italia, ma dell’Europa. E va approfondita una strategia di sviluppo seria, concertata al livello europeo, che abbracci novità ormai mature come l’attribuzione di una “capacità di bilancio” all’Unione europea. È uno sforzo a cui il nostro Paese può dare il suo contributo propositivo con la necessaria puntualità, determinazione e attitudine al dialogo con altre posizioni presenti nelle istituzioni dell’Unione».
E il problema europeo diventa immediatamente geopolitico, con le decisioni dei paesi europei di sospendere i trattati di Schengen e, sopratutto, la preoccupazione per la “nuova strategia” della Russia che vede nella Nato uno dei principali nemici sullo scenario globale.
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Tornando alla Ue, tra le questioni oggetto di un contenzioso allargato c’è il dramma dei migranti. Che oggi si sovrappone a un altro problema: pare che anche i Balcani siano divenuti ormai un’area di reclutamento per portare la jihad in Europa. Come dovrebbe muoversi la Ue per fronteggiare questo pericolo?
«Sul tema dell’afflusso crescente di migranti e innanzitutto di richiedenti asilo — questione di lungo periodo, e non di transitoria emergenza — ho ampiamente espresso le mie valutazioni in Senato e nella lezione tenuta all’Università di Pavia il 27 novembre scorso. Occorre stare molto attenti a non sovrapporre il rischio terrorismo a un approccio di apertura regolata soprattutto verso quanti hanno diritto all’accoglienza come rifugiati. Massima preoccupazione e attiva vigilanza per garantire la sicurezza in Europa, ma senza strumentalismi volti a provocare una deriva di patologica chiusura, di violazione di convenzioni internazionali e norme europee per la protezione del diritto all’asilo, e dunque di fatale regressione rispetto a valori e conquiste del processo di integrazione europea. Guai a far saltare l’accordo di Schengen, a ristabilire confini nazionali e ad erigere muri, a mettere a rischio la conquista storica della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione. Apprezzo che il ministro Alfano smentisca l’ipotesi di una nostra chiusura delle frontiere con la Slovenia. Bisogna piuttosto fermare altri su questa china».
Altro nodo critico sul quale ci si divide a Bruxelles è la «nuova dottrina» della Russia di Putin, che ha appena aggiornato la sua strategia di sicurezza giudicando anche la Nato alla stregua di un «nemico». Che atteggiamento sarebbe utile prendere, a questo proposito?
«Mesi fa, dai vertici militari degli Stati Uniti, si levò una voce per definire la Russia d’oggi come avversario strategico degli Stati Uniti. Quella voce fu sconfessata dalla stessa Casa Bianca. Mi auguro che analogamente vengano chiarimenti dal presidente Putin sul passaggio sconcertante, da lei citato, della “nuova dottrina” di sicurezza russa. La cooperazione tra Russia e America, insieme con l’Europa, è una necessità imposta tassativamente dalle tensioni, minacce e sfide emerse sul piano internazionale; e i primi a mostrare di saperlo sono il segretario di Stato Kerry e il ministro degli Esteri Lavrov che lavorano fianco a fianco per cercare soluzioni comuni a crisi gravissime».
Si passa poi alla questione delle riforme costituzionali in Italia: anche grazie al percorso riformatore del governo di Matteo Renzi l’Italia, in Europa è percepita diversamente, sostiene l’ex dirigente del PCI.
Possibile che l’Italia, nonostante le diverse riforme strutturali in cantiere, continui a essere un sorvegliato speciale, in Europa? Se è vero che la flessibilità sui conti si lega anche all’ammodernamento nel quale ci siamo impegnati, Bruxelles non dovrebbe forse prendere atto che un certo percorso è stato imboccato? Che cosa pensa, al riguardo?
«Non penso che l’Italia debba sentirsi “un sorvegliato speciale in Europa”. In questi due anni il governo e il Paese hanno mostrato una volontà riformatrice di cui sono convinto che i più attenti nostri partner europei hanno compreso il valore e apprezzato i primi risultati».
Il capitolo delle riforme costituzionali non è però ancora chiuso, in Parlamento. Senza contare il referendum confermativo, che per qualcuno Renzi vorrebbe trasformare in un plebiscito su di sé e al quale lega il proprio futuro politico…
«Guardi: il referendum confermativo è previsto dall’articolo 138 della Costituzione, nel caso di non raggiungimento dei due terzi della maggioranza parlamentare sul testo della riforma, e scatta secondo iniziative che lo stesso articolo regola. Non è insomma automatico e non è il governo in quanto tale che lo promuove. Personalmente sosterrò la conferma della legge di riforma approvata dal Parlamento e mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività. Cioè pronunciandosi sul merito della riforma, della sua necessità e della sua — a mio avviso — indilazionabilità, e non facendone materia di scontri politici personalizzati».