Cosa è successo a Giulio Regeni?
06/02/2016 di Redazione
Giulio Regeni, ricercatore e giornalista italiano, prima di morire in Egitto è stato «torturato come in Cile», con tecniche odiose, dolorose e professionali. E’ stato venduto, probabilmente, ai suoi aguzzini: tradito da quella rete di fonti e di contatti che aveva attivato per scrivere i suoi articoli e per lavorare sulla sua tesi, uno studio dei movimenti sindacali durante il governo di Al Sisi, il generale egiziano. La polizia del Cairo ora cerca in maniera nevrotica notizie e persone che possano dare spiegazioni sulla morte scomoda di Giulio Regeni, sulla quale l’Italia pretende chiarezza.
GIULIO REGENI «TORTURATO COME IN CILE»
Il Messaggero fa il punto su voci e dicerie che arrivano dall’Egitto.
«Un atto criminale non collegato al terrorismo»: l’Egitto prepara la sua verità per la morte di Giulio Regeni. E a distanza di tre giorni dal ritrovamento del cadavere del ricercatore italiano, mette a ferro e a fuoco la città alla ricerca di presunti autori delle torture e dell’omicidio. Quarantacinque abitazioni sono state perquisite, gli amici del ragazzo sono stati portati in procura per essere interrogati, e chissà quanta gente si trova nelle mani della polizia. Nel pomeriggio di ieri, è circolata la voce di due possibili arresti: «persone legate al delitto», ha dichiarato una fonte dei servizi di sicurezza. Ma la notizia è stata diffusa soprattutto in Italia, perché nessun media arabo la ha riportata. E infatti, in serata, la stessa fonte ha rallentato: «Per l’annuncio ufficiale dei fermi ci vorrà ancora molto tempo».
Non buona, l’aria in Egitto: Giulio Regeni forse era venuto in contatto con persone da non frequentare. Nemici del regime.
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E ha fatto la fine che altri cooperanti e studiosi hanno fatto in passato, proprio nei giorni degli anniversari di Piazza Tahrir.
Potrebbe aver incontrato persone sgradite al governo egiziano. Del resto il giovane friulano si era già espresso in maniera critica su come i diritti venivano tutelati nel paese africano. E lo aveva scritto anche per un’agenzia di informazione che si chiama Nena News (agenzia stampa Vicino Oriente), un sito creato da giornalisti e ricercatori «con l’obiettivo di diffondere un’informazione indipendente su un’area del mondo che è terreno di conflitti che condizionano l’intero pianeta». Un suo articolo, lo stesso che è uscito su Il Manifesto di ieri, era stato pubblicato il 14 gennaio, undici giorni prima della scomparsa, ed è stato poi ripreso da altri siti specializzati, tra i quali “Palestina rossa”. Era firmato con uno pseudonimo: Antonio Drius. Giulio aveva scelto di usarlo perché temeva qualcosa, aveva paura. E forse proprio tra le persone contattate per il suo lavoro potrebbe nascondersi qualcuno che lo ha “venduto” agli apparati, inventando chissà quale storia di spie e tradimenti. Così il giovane è finito nella rete di chi lo ha torturato e ucciso: probabilmente arrestato nella retata di attivisti che si è registrata il 25 gennaio, giorno del quinto anniversario della rivolta studentesca di piazza Tahrir. Volevano da lui chissà quali informazioni, hanno picchiato duro e lo hanno assassinato. Avevano fatto così anche con un altro suo coetaneo egiziano, Mohammed al Jungi. Era scomparso il 25 gennaio del 2013, ritrovato in coma in un ospedale il 3 febbraio, dove è morto il giorno dopo per le botte in testa, le bruciature, i tagli. «È stato un incidente stradale», ha dichiarato la polizia. Pure in quel caso una macchina assassina che, non solo travolge, ma anche sevizia. Era un attivista politico e lavorava nel team di un candidato alla presidenza. La verità sulla sua morte non si è mai saputa.
In mattinata ha parlato il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, sostenendo che gli arresti effettuati dalla polizia egiziana siano un primo passo largamente insufficiente.
A quanto risulta dalle cose che ho sentito sia dall’ambasciata sia dagli investigatori italiani che stano cominciando a lavorare con le autorità egiziane, siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito cosa sia successo. Credo che siamo lontani dalla verità
Il lavoro congiunto, ha continuato Gentiloni, “va fatto insieme” e sta iniziando in questo momento, ha chiuso il ministro degli Esteri italiano.