Anche intervistare il figlio di Totò Riina è giornalismo
07/04/2016 di Giordano Giusti
«Ciao bambini, papà va a fare una strage. Però torna per pranzo, promesso». No, questo del padre, del Capo dei Capi, Salvo Riina non l’ha riferito, ma ci è andato vicino: ieri sera a Porta a porta è andato in onda il racconto assurdo, straniante, folle di una famiglia mafiosa e una frase del genere sarebbe quasi risultata normale. La narrazione delle dinamiche di casa Riina è inquietante, addolora: l’infanzia «molto serena», il divertimento nel non andare a scuola, quel «purtroppo è successo il fatto che hanno arrestato mio padre», quel «cos’è per me la mafia? Non me lo sono mai chiesto» sono tutti pugni in faccia, tutte fitte allo stomaco. Un racconto crudele ma necessario: guardare negli occhi, seppur mediati da uno schermo televisivo, chi ha guardato negli occhi, da vicino, per anni, uno dei peggiori criminali della storia del nostro paese, starlo ad ascoltare, significa voler capire, interrogarsi, andare a fondo. Il Male esiste, quella famiglia esiste e continuerà a esistere anche se noi giriamo la testa o cambiamo canale. Bisogna quindi farci i conti, ficcare tutto ciò sotto il tappeto non ci aiuta. L’intervista al figlio di un boss, a sua volta condannato per mafia, allora non è solo uno spettacolo che ci disgusta ma un sintomo, un’occasione da cogliere.
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Le polemiche, lo sapete già, non sono mancate. Vergogna, non è servizio pubblico, è negazionismo della mafia e via dicendo. Chiedo: è davvero immorale interrogarsi sulle dinamiche interne di una famiglia che è mafiosa e allo stesso tempo italiana, e che quindi, anche se non lo vogliamo, ci appartiene? No. L’intervista è stata uno spot pro mafia? No. Ha infangato la memoria delle vittime della criminalità organizzata? No. Ieri sera non c’è stato nulla di più distante dall’apologia di Cosa Nostra: la famiglia Riina ci faceva schifo prima e ci fa schifo soprattutto e ancora di più adesso, che gli abbiamo dato il viso sbarbato e i lineamenti tondi di uno dei figli. Il cui racconto e il cui libro sono il manifesto di quel familismo amorale che attanaglia l’Italia da secoli e che in questo caso si è fatto criminale e autoassolutorio allo stesso tempo: «Mio padre ha sbagliato? Non tocca a me dirlo, c’è lo Stato. Che me l’ha tolto». In Salvo Riina che avvampa vedendo le immagini delle stragi di Capaci e via D’Amelio – la mossa più riuscita dell’intera intervista – c’è la conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, di quale parte sia giusto sostenere, ora e sempre.
Due parole su Vespa: chi scrive non pensa che sia il miglior giornalista italiano, anzi. Ma ieri sera si è difeso bene, ha attaccato quanto è lecito aspettarsi da chi da vent’anni conduce quella che venne definita la terza Camera, mite per antonomasia – e ha garantito anche il “contraddittorio” con il dibattito in studio. Probabilmente sì, avrebbero incalzato di più un Montanelli, un Biagi, magari un Mentana, un’Annunziata, perfino una Leosini. O, come letto in giro, uno dei tanti giovani e bravi precari che scrive di mafia su un giornale del Sud. L’intervista però se l’è presa Vespa, l’ha voluta Vespa e Riina a Vespa l’ha data: e noi, per ascoltare il figlio di Riina – come il sottoscritto pensa sarebbe stato giusto fare – su Rai 1 avremmo dovuto sintonizzarci. Si chiamano scoop.
Photocredit copertina portaaporta.rai.it