Le difficoltà del reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro

01/04/2014 di Maghdi Abo Abia

IL PROGETTO LOGOS – Ed in questo senso è stata presentata l’attività del Progetto Logos, nato dall’azione della Compagnia di San Paolo e l’Ufficio Pio. L’obiettivo è quello di mettere in pratica quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ed il progetto agisce proprio in questo senso, rivolgendosi ad ex-detenuti fuori dal carcere da meno di cinque anni e che siano stati scarcerati per fine pena, indipendentemente dalla presenza di pene accessorie, dai penitenziari di Piemonte e Valle d’Aosta, che siano liberi da dipendenze e che non soffrano di patologie psichiatriche. E l’obiettivo è quello di dare un’opportunità a coloro che necessitano di un aiuto per perseguire un inserimento sociale e lavorativo attraverso il riconoscimento delle proprie responsabilità rispetto alla collettività.

Il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro

IL LAVORO A BOLLATE – A questo proposito era presente tra gli ospiti al convegno anche il direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi, che nel corso del suo intervento ha sottolineato la bontà dei progetti portati avanti dall’istituto da lui diretto parlando di circa 150 detenuti lavoratori su una popolazione di 1.200 individui, proponendo anche uno schema aggiornato al luglio 2013 delle attività lavorative e formative all’interno della struttura carceraria. Ad esempio tra le opportunità viene presentata la possibilità di lavorare per la ditta S.S.T che si occupa della riparazione dei telefonini Samsung, come call center per la compagnia telefonica H3G, nel progetto Bitron, specializzato nell’assemblaggio di pezzi di elettrodomestici. La cooperativa sociale E.S.T.I.A. propone lavori di falegnameria e di rappresentazioni teatrali mentre la cooperativa Alice offre servizi di sartoria.

LA STORIA DI GIUSEPPE – Questo piccolo spaccato delle attività del carcere di Bollate dimostrano l’importanza del valore della formazione e del lavoro a supporto della crescita del detenuto, del recupero della credibilità personale e di come sia evoluto l’approccio delle istituzioni nei confronti di questo tema. Ed in questo senso appare esemplare la storia che ha visto coinvolta Eni che ha aperto le porte dello stabilimento di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, ad un ragazzo, Giuseppe, detenuto per 11 anni nel carcere di Cremona per spaccio di stupefacenti. L’azienda, grazie alla convenzione siglata con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, ha dato vita ad un approccio individualizzato nel suo centro di formazione di Cortemaggiore con la possibilità di assumere i personaggi più meritevoli nel corso del regime di detenzione.

Il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro

BISOGNA GARANTIRE UN FUTURO – E questo è il percorso seguito da Giuseppe che nel corso degli anni ha dimostrato di essere pronto a cogliere un’occasione di riscatto lavorando alacremente in carcere prima ed in fabbrica poi. Il lavoro ha poi portato alla conoscenza di una ragazza diventata sua fidanzata e con la quale è riuscito ad organizzare la propria vita conclusasi con la scarcerazione dopo 11 anni. Una storia, questa, che dimostra l’importanza di poter fornire ad un detenuto la possibilità di redimersi del proprio peccato fornendogli un percorso da seguire che porti ad una riabilitazione. Perché, come sottolineato nel corso dell’incontro da Don Gino Rigoldi, spesso ci si dimentica che i detenuti ospiti per anni delle carceri italiane una volta usciti sono privi sia di un lavoro sia di una casa. E tale situazione di precarietà porta ad una recidiva del reato col fine ultimo di tornare in carcere, unico luogo percepito come sicuro.

IL RISPETTO PER LE VITTIME – Livia Pomodoro, Presidente del Tribunale di Milano, ha sottolineato le responsabilità della giustizia con i magistrati che spesso chiedono pene alternative o percorsi di formazione per quelli che sono stati condannati al carcere per reati definiti di sopravvivenza, ovvero quelli che vengono perpetrati per garantirsi la sussistenza, ma che questo non viene fatto per via della mole di leggi che impedisce un percorso di formazione e riabilitazione. La Pomodoro ha però voluto porre un distinguo tra quei reati definiti di sopravvivenza e gli altri, sottolineando la necessità di valutare caso per caso sopratutto in ossequio alle vittime di un’eventuale azione criminosa. Ma certo appare evidente che il carcere dovrebbe tornare alla sua formazione iniziale di rieducazione nei confronti del colpevole.

Il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro

UN PERCORSO INIZIATO NEL 1975 – Del resto, come spiegano Susanna Pietralunga, Cristina Rossi, Chiara Sgarbi in un articolo pubblicato sulla rivista italiana di criminologia, nel 1975 s’iniziò a parlare di un allargamento delle prospettive per un reinserimento sociale dei detenuti con il coinvolgimento del mondo esterno nell’azione rieducativa. In questo senso anche l’Unione Europea chiede che si faccia ricorso alla cooperazione con organizzazioni ed associazioni che aiutino il recupero sociale dei detenuti. Il primo aprile è arrivato alla Commissione Giustizia del Senato il testo unico su amnistia ed indulto nel quale si parla di possibilità lavorative per detenuti. Si tratta del passo auspicato da Livia Pomodoro ma bisogna sperare che questo basti. Come specificato da Pietralunga, Rossi e Sgarbi nella letteratura attuale esistono oscillazioni consistenti sulla quantità degli studi svolti su tali argomenti e sulla natura di tali riflessioni, elaborate da istituzioni locali, politiche, penitenziarie e da rappresentanti delle associazioni.

UN CAMBIAMENTO NECESSARIO – Il tema è stato espresso con chiarezza da Don Rigoldi nel corso dell’evento organizzato da Eni Corporate University. Ci sono persone che sono in carcere per reati tutto sommato lievi, come il caso di un ragazzo di colore incappato nella ex-Cirielli a causa della reiterazione per tre volte del reato di vendita di cd falsi che gli è costato una pena a tre anni e sei mesi. Se non viene contemplato un percorso di rieducazione che porti l’accusato a comprendere la portata del suo gesto e che gli consenta di costruirsi un futuro, probabilmente una volta uscito tornerà a delinquere perché non saprà cosa fare. L’esempio di Giuseppe in questo senso è illuminante. Nonostante la condanna ad undici anni la sua voglia di reagire, di lottare, di cambiare e di assicurarsi un futuro l’ha portato ad essere protagonista di una storia conclusasi con un pensiero commovente:

L’ultimo giorno stavo lavorando, mi hanno chiamato perché era pronta la scarcerazione, sono andato, ho raccolto le mie cose in un sacco che ho buttato e sono uscito da lì. E la sera passeggiavo con la ragazza ed il cane. E vedendo il cielo ho provato un senso di libertà che non si può definire dopo tanto tempo…

 

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