«Cara Lorenzin mio padre è morto senza dignità»
05/10/2016 di Redazione
Ha scritto al ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ha spiegato, parola per parola, come è morto suo padre, malato di cancro, nei corridoi del pronto soccorso del San Camillo. Le righe sono state raccontate da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera:
«Bice, apri la finestra: fammi vedere il sole», mormorò col suo ultimo fiato l’anarchico Pietro Gori, autore della struggente Addio Lugano bella. Marcello Cairoli non ha potuto esprimerlo, l’ultimo desiderio: è morto in mezzo alla dolente cagnara del pronto soccorso del San Camillo, con pochi decimetri di privacy ricavati da un paravento e un maglioncino appeso con lo scotch. Con moglie e figli intorno al letto, a proteggere coi corpi un pezzetto di decoro di chi stava spegnendosi. «Sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti mai arrivati», ha scritto il figlio a Beatrice Lorenzin. Forse è vero, forse non era possibile sconfiggere quello che Malaparte chiamava «lo stramaledetto». Ma non era solo una questione di medicine: «Nessuno ci ha aiutati a comprendere…»
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Come è morto Marcello?
Finché, all’inizio dell’autunno, l’uomo è finito in emergenza nell’ospedale romano. «Qui la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri «servono per garantire la privacy durante le visite»; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siam dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera».
«Sarebbe dovuto morire a casa -spiega Marcello sul Corriere – soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia».
(foto copertina ANSA/GIORGIO ONORATI)