Nanni Moretti ha ragione: con questa classe dirigente al cinema non vinceremo mai
06/08/2015 di Boris Sollazzo
Nanni Moretti
lancia la bomba. “La crisi del cinema è colpa degli spettatori, detestano i film italiani”. Così, a occhio e croce, suona l’anatema contro il pubblico di uno dei nostri migliori registi da quasi quarant’anni. E’ una semplificazione giornalistica rispetto a quanto da lui dichiarato a MoliseCinema, festival indipendente di valore, ma in fondo il senso è quello. D’altronde è dai tempi di “ve lo meritate Alberto Sordi”, passando per “con questa classe dirigente non vinceremo mai” che il nostro fa i conti con l’efficacia e la capacità di penetrare l’opinione pubblica delle sue trovate dialettiche.
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E giù tutti a criticarlo, a partire dal bravo critico cinematografico Marco Giusti su Dagospia, che sottolinea come sia facile scegliere tra l’esilarante Checco Zalone, preso d’assalto dal pubblico italiano, e il morettiano Mia Madre, fondato su una donna malata di cancro (semplificazione anche questa, ma chi di slogan ferisce di slogan perisce).
Nanni Moretti non è molto simpatico a una gran fetta dei media e anche del pubblico, quindi sarà impopolare la nostra presa di posizione, ma ha ragione da vendere.
Qui proviamo a spiegare perché, provando a farlo riflettere solo su un punto: forse il malessere da lui è individuato è l’effetto, non la causa.
Insomma, sarà anche colpa di chi sceglie cosa guardare – e pagando, ne ha ben donde – ma capire cosa non va nel cinema, al di là di faziose polemiche, può essere utile.
LA CRISI DEL CINEMA ITALIANO –
Da cosa nasce l’odio del pubblico nostrano? Da un ventennio. No, non quello berlusconiano, anche se, certo, Silvio e le sue televisioni hanno contribuito. Lo diceva proprio Nanni a Jasmine Trinca, aspirante regista e idealista militante, e a Silvio Orlando “ha già vinto, vent’anni fa”, rifiutando di interpretarlo ne Il Caimano.
Da quel ventennio che partì dalla fine degli anni ’70 e arrivò a toccare il nuovo millennio, la Settima Arte tricolore si produsse in comicità caciarona – quel trash pallido erede di quello spesso giustamente rivalutato dallo stesso Giusti – e autorialismi soporiferi, autoreferenziali, sovrastimati. Parliamo di cineasti che scelsero, a differenza dello stesso Moretti (e di un Bellocchio da sempre mosca bianca), in controtendenza in questo senso, allora come oggi, “il cinema due camere e cucina” e si dimenticarono, per dire, un Gian Maria Volontè. E di una commedia che dimenticò Monicelli, Scola e molti altri per ritrovarsi – soprattutto per merito della tanto vituperata tv – “solo” Troisi e Verdone. Il problema è che il primo morì all’alba del decennio successivo e Carletto cominciò il suo declino nello stesso periodo. E anche Nanni, dopo una dozzina d’anni pazzeschi, si prese, diciamo, un periodo di pausa, o per lo meno non così felice. E vent’anni, se non di più, in un immaginario collettivo violentato dalle televisioni private (si pensi alla Grande Bellezza maltrattato dagli spot su Mediaset, senza tornare al “non si interrompe un’emozione” di Fellini), hanno lasciato scorie terribili, con generazioni che si son passate il mantra “andiamo a vedere quello che volete, ma non un film italiano”. E non sono bastati Tornatore (che con il produttore Cristaldi va ascritto all’epoca precedente) e Salvatores, con gli Oscar, a tirare su il morale del pubblico.
CINEMA ITALIANO, DOVE SEI –
E arriviamo ai giorni d’oggi. In cui ci si è ripresi sia sul lato commedia (Leo, Bruno, persino il primo Brizzi, Sibilia) non tanto nei picchi quanto nella qualità media e in cui anche i cinepanettoni cercano la qualità, sia tra gli autori, se è vero che ci ritroviamo Moretti e Bellocchio di nuovo fulgenti e una nuova generazione di maestri come Sorrentino, Garrone e Vicari. E un cinema indipendente strozzato dalla distribuzione, ma validissimo.
Ora è il conformismo ad averci ucciso. Il “no ai film italiani” è diventato “vabbé, ma in Italia facciamo sempre lo stesso film”. Veramente falso, potremmo dire. Per due motivi. Tutte le cinematografie nazionali assomigliano a se stesse: i francesi fanno sempre lo stesso film (e sempre peggio, anche se ci piace invidiarli: raccontano amori borghesi e velleitari scimmiottando Woody Allen, e parliamo dei migliori). Gli spagnoli si imitano da 25 anni, i tedeschi per sicurezza non sono passati al digitale – è una battuta, ma neanche troppo – per non perdere l’estetica vellutata alla “Derrick”.
Noi, però, facciamo uno sforzo in più. Con un mercato strozzato da un’oligarchia forzata, un finanziamento pubblico limitatissimo (anche dalla demagogia: pazienza se per ogni euro speso lo Stato ne recupera il doppio, spesso dal solo gettito fiscale) e una vendita dei diritti televisivi al ribasso e impostato su gusti discutibili, il conformismo non è solo di autori (ora piû pavidi, per sopravvivere) e pubblico che vuole ridere con trame rassicuranti, ma anche di produttori e distributori, che vanno sul sicuro, consumando generi già deboli di loro. E così se funziona la commedia corale giovanilistica, per due anni non si fa altro. Se invece è il turno di quella sentimentale, la parola amore e il titolo rosso su sfondo bianco impazzano. E ora che è il turno della commedia precaria, la si banalizza, annacqua e si esaurisce anche quella.
MORETTI HA RAGIONE –
Nanni, quindi, ha ragione. Giusti ha memoria corta quando lo accusa di parlare per sé. Mia madre, è vero, ha avuto incassi bassi, ma normalmente il nostro in sala gli spettatori li porta eccome. Con la qualità e uno stile che sa essere d’autore e popolare, ma senza blandire i bassi istinti del pubblico. E il “giustiano” Zalone, dopo due film fantastici e politicamente scorretti, ha continuato prendendo i difetti peggiori della nostra commedia, scadendo nello zalonismo. Ha anche ragione, per carità: guardate I soliti idioti, appena hanno provato a smarcarsi dal loro stereotipo, sono stati puniti dalla sala.
IL PUBBLICO HA SPESSO TORTO –
Il pubblico non ha sempre ragione. In Francia riempie i cinema e pretende dai propri autori di più: e così, pur non essendoci più Truffaut, ci ritroviamo un Quasi amici che, come commedia popolare e intelligente, è d’alto livello. Il nostro vuole Zelig, Made in Sud e se proprio vuole “impegnarsi” gli basta “La storia siamo noi” abbellito, abituato com’è al rullipetraglismo (dagli sceneggiatori de La meglio gioventù, Rulli e Petraglia) che ha invaso il nostro cinema d’autore con immagini in movimento dedicate a una visione del mondo molto radical chic, con la generazione Sessantottina ad autoassolversi e autoincensarsi con storie, valori e visioni vecchissime di una società che in loro non si riconosce. E ignorando le generazioni fantasma, nate, guarda un po’, dalla fine degli anni ’70 in poi. Un cinema che lo stesso Nanni Moretti, in Mia Madre, con il film che viene girato da Margherita Buy, prende in giro.
Insomma Nanni, con questa classe dirigente – politica, artistica, produttiva -, al cinema non vinceremo mai.