Perché le Ong non vogliono firmare il codice di condotta italiano
01/08/2017 di Alice Bellincioni
Le ong Medici senza frontiere (Msf) e Migrant offshore aid station (Moas) non firmeranno il Codice di condotta italiano per regolamentare il soccorso dei migranti nelle acque internazionali a nord della Libia. Il testo, presentato ieri dal Viminale, è stato sottoscritto solo da Save the children e Jugend Rettet. Ha intenzione di firmarlo anche la ong spagnola Proactiva open arms, che ha inviato una lettera al ministro Minniti. Ancora non chiare, invece, le intenzioni delle ong Sos Méditerranée, Sea Watch, Sea Eye e LifeBoat, che ieri erano assenti alla riunione al Viminale.
I motivi per cui il Codice di condotta italiano in 13 punti non piace alle ong sono principalmente due: prevede poliziotti armati a bordo delle navi e vieta i trasbordi da un’imbarcazione all’altra. Il direttore generale di Medici senza frontiere Italia, Gabriele Eminente, ha chiarito in una lettera destinata a Minniti il perché della mancata sottoscrizione da parte dell’ong.
- La priorità è salvare vite umane: il Codice non lo chiarisce. «Dal nostro punto di vista, il Codice di Condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare».
- Le ong prestano soccorso in mare al posto delle istituzioni pubbliche che non lo fanno: il Codice non riconosce loro il ruolo di supplenza. «Abbiamo sempre sottolineato che l’attività di ricerca e soccorso (SAR) in mare ha il solo obiettivo di salvare vite in pericolo e che la responsabilità di organizzare e condurre questa attività risiede innanzitutto nelle istituzioni statali. L’impegno di MSF e delle altre organizzazioni umanitarie nelle attività SAR mira anzitutto a colmare un vuoto di responsabilità lasciato dai governi: auspichiamo che questo vuoto sia solo temporaneo e da tempo chiediamo agli Stati membri UE di creare un meccanismo dedicato e proattivo diricerca e soccorso che integri gli sforzi compiuti dalle autorità italiane. Dal nostro punto di vista, il Codice di Condotta non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie».
- Il divieto di trasbordo rischia di aumentare le vittime in mare. «Il Codice non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso. Al contrario, riteniamo che il Codice rischi nella sua attuazione pratica di contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità di quel sistema. Ci riferiamo in modo specifico all’impegno richiesto alle navi di soccorso di concludere la loro operazione provvedendo allo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro di destinazione, invece che attraverso il loro trasbordo su altre navi. Questa modalità di organizzazione delle operazioni riduce la presenza di assetti navali nell’area SAR e comporta aggravi non necessari alle navi di soccorso non predisposte per operare regolarmente i trasferimenti a terra delle persone. Nell’esperienza degli ultimi due anni, le navi più piccole hanno spesso fornito un contributo essenziale alle operazioni SAR, stabilizzando i barconi in difficoltà in attesa che navi più grandi provvedessero al soccorso e all’imbarco dei naufraghi. Le nostre unità navali sono molto spesso sopraffatte dall’elevato numero di barconi che si trovano contemporaneamente in stato di difficoltà, e la vita e la morte in mare è una questione di minuti. Il Codice di Condotta mette a rischio questa fragile equazione di collaborazione tra diverse navi con diverse capacità, comportando il rischio effettivo che le navi più piccole siano costrette ad abbandonare frequentemente la zona di ricerca e soccorso e, nel medio periodo, addirittura a cessare di operare».
- A coordinare le ricerche deve essere solo la Marina italiana. «Il Codice sembra poi ricercare il coinvolgimento di altri governi nel meccanismo di soccorso in mare, in particolare per l’impegno a informare immediatamente le autorità dello Stato di bandiera e a coinvolgere l’MRCC più vicino alla zona in cui si verifica un evento SAR. Fino ad oggi abbiamo lavorato sotto l’esclusivo coordinamento dell’MRCC di Roma, riconoscendo in ogni circostanza la più assoluta efficienza e dedizione. Abbiamo richiesto garanzie che l’obbligo di coinvolgere altri MRCC non avrebbe comportato rallentamenti nelle operazioni di soccorso e nella determinazione del luogo sicuro in base agli accordi internazionali. I cambiamenti apportati a questo impegno nella versione definitiva del Codice non rispondono sufficientemente a questa richiesta e poiché la non chiara assegnazione delle responsabilità tra gli MRCC attivi nell’area ha in passato provocato tragedie».
- Non vogliamo funzionari di polizia a bordo. «La presenza a bordo di funzionari di polizia armati è contraria alla politica “no- weapons” che applichiamo rigorosamente in tutti i nostri progetti nel mondo. È per noi anche una questione di sicurezza e per questa ragione ne richiediamo il rispetto sia agli eserciti e alle forze di polizia che ai gruppi armati e alle milizie di ogni tipo».
- L’attività di repressione va distinta da quella umanitaria. «Mentre la nuova versione del Codice garantisce che le attività umanitarie non saranno ostacolate dalla presenza di funzionari di polizia a bordo delle nostre navi, si richiede ancora alle nostre équipe di contribuire attivamente alla raccolta di elementi utili ad attività di polizia e investigative, e questo costituisce una distorsione sostanziale della nostra missione. Il Codice non fa poi alcun riferimento ai principi umanitari e alla necessità di mantenere la più assoluta distinzione tra le attività di polizia e repressione delle organizzazioni criminali e l’azione umanitaria, che non può essere che autonoma e indipendente».
- La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga. «A queste osservazioni si aggiungono le preoccupazioni che già abbiamo condiviso con lei sulla drammatica situazione in Libia. Le persone di cui ci prendiamo cura nei centri di detenzione intorno a Tripoli e quelle che soccorriamo in mare condividono le stesse vicende di violenza e trattamenti disumani. Le strategie messe in atto dalle autorità italiane ed europee per contenere le partenze dalle coste libiche sono, nelle circostanze attuali, estremamente preoccupanti. La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga, né dal territorio europeo né dal mare. Ovviamente le attività di ricerca e soccorso non costituiscono la soluzione per affrontare i problemi causati dai viaggi sui barconi e le morti in mare, ma sono necessarie in assenza di qualunque altra alternativa sicura perché le persone possano trovare sicurezza. Contenere l’ultima e unica via di fuga dallo sfruttamento e dalla violenza non è dal nostro punto di vista accettabile.Anche per questa ragione, il recente annuncio dell’operazione militare italiana nelle acque libiche costituisce un elemento di ulteriore preoccupazione che ci ha confermato la necessità di segnare l’assoluta indipendenza delle nostre attività di soccorso in mare dagli obiettivi militari e di sicurezza».
Foto copertina: Ansa