Perché l’America ama la pena di morte
22/09/2011 di Tommaso Caldarelli
La punizione capitale: gli States non sembrano intenzionati a rinunciarvi
Troy Davis è morto, in Georgia. Il suo caso è già storia, e come da lui dichiarato, la sua lotta per la giustizia sarà continuata dai suoi sostenitori. “Muoio per tutti i Troy Davis del futuro”, dice il condannato e probabilmente innocente, ucciso dallo Stato: e sì che, di nuovi Troy Davis, di condannati sul corridoio della morte delle prigioni statunitensi, ce ne sono molti altri. “Troy è il 33mo condannato a morte la cui condanna viene eseguita quest’anno”, ricorda il Guardian: “Ce ne sono altri 9 la cui esecuzione è fissata prima della fine del 2011”.
LA PENA DI MORTE IN USA – Pena di morte e Stati Uniti d’America: il paese dove è promessa la libertà per tutti, è tuttora l’unico paese occidentale in cui il sistema della giustizia può consegnarti al braccio della morte. Contraddizioni, forse; oppure il prezzo della libertà e del sogno americano. O forse il concretizzarsi dello stereotipo dell’americano pauroso di tutto, violento e ignorante fino ad accettare che lo stato possa uccidere un criminale, per quanto grave sia stata la sua colpa. Chi merita di morire? L’America, a questa domanda, ha una risposta diversa da “nessuno”, in molte parti della grande nazione. Nonostante gli attivisti che da anni si battono per l’abolizione della pena capitale, nonostante i casi eclatanti che hanno portato ad una mobilitazione nazionale ed internazionale: Troy Davis è solo l’ultimo degli episodi, l’ultima storia tragica e straziante che ha visto gli attivisti di tutto il mondo, le organizzazioni non governative e le reti della pace e della giustizia dire ad alta voce: fermate il boia, non è giusto, non c’è giustizia in tutto questo.
TUTTI D’ACCORDO – Eppure l’America non si è fermata: perché l’America risponde solo al suo popolo. Un popolo che, in linea di massima, continua ad accettare e sostenere l’ipotesi che lo stato possa uccidere un criminale. Sono molti i dati a disposizione, disaggregati stato per stato. Uno dei più autorevoli istituti di sondaggi americano, Gallup, ha interrogato l’intera Unione l’anno scorso. I risultati sono chiari: la maggioranza degli americani è favorevole alla conservazione dell’istituto. Il dato, sostiene l’istituto demoscopico, non è cambiato in maniera significativa negli ultimi 70 anni, nonostante, come abbiamo detto, i vari casi all’onore delle cronache.
Nonostante la perdurante controversia sull’uso della pena di morte, le attitudini dell’americano medio sono poco cambiate in anni recenti. L’attuale livello di supporto al 64% è praticamente uguale a ciò che Gallup ha notato durante la maggior parte di questo decennio. La domanda sulla pena di morte nei casi di omicidio è una delle tematiche più antiche di Gallup – fin dal 1936, quando il 59% degli americani supportavano la pena di morte e il 38% vi si opponeva.
La storia della pena di morte in America affonda le sue radici nei padri pellegrini, che hanno portato la pena capitale fin dall’Inghilterra. Le leggi sulla pena di morte variavano da colonia a colonia.
La colonia del Massachussets ha tenuto la sua prima esecuzione nel 1630, nonostante le leggi del New England non entrassero in vigore prima dell’anno successivo. La colonia di New York ha istituito la legge nel 1665. In queste leggi, reati come picchiare la madre di qualcuno, o negare il “vero Dio”, erano punibili con la morte.
Ma l’America, imbevuta di cultura illuminista fino al midollo, e la sua classe dirigente non poteva rimanere sorda all’opera del più grande illuminista italiano, Cesare Beccaria, che per primo nel 1767 scrive ne Dei delitti e delle pene che lo stato non può portare via la vita ad un essere umano. Da quel momento, inizia a farsi strada il movimento abolizionista della pena di morte.
LE PRIME ABOLIZIONI – Nel 1834, la Pennsylvania diventa il primo stato a rimuovere le esecuzioni dal pubblico e a condurle in strutture apposite.
Nel 1846, il Michigan diventa il primo stato ad abolire la pena di morte per tutti i reati tranne il tradimento. Più tardi, seguono il Rhode Island, il Wisconsin aboliscono la pena di morte per tutti i crimini.
Bisogna aspettare il 1900 perché qualcosa di grosso, però, succeda. Dobbiamo arrivare, infatti, al 1972, nel caso Furman contro la Georgia, esaminato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il supremo tribunale americano si approccia a questo caso, e formula la sua decisione: questa sentenza risuona nello spazio pubblico americano, arrivando praticamente a paralizzare tutte le esecuzioni capitali nello spazio federale per quasi cinque anni.
In Furman, la Corte Suprema ha considerato una serie di casi consolidati. Il caso guida riguardava un individuo condannato secondo la legge sulla pena di morte della Georgia, che prevedeva una procedura “unitaria” in cui la giuria doveva restituire il verdetto di colpevolezza o innocenza e, simultaneamente, determinare se l’imputato sarebbe punito con la morte o con l’ergastolo. In una decisione cinque a quattro, la Corte decise che la pena di morte in ciascuno dei casi consolidati era incostituzionale.
Ciò che la corte criticava, però, era l’automatismo del collegamento fra colpa e pena: non è detto che un caso di omicidio debba sempre punirsi con la pena di morte. La Corte pretendeva che a decidere la pena fosse un secondo procedimento: molti stati, allora, implementarono un processo “biforcato”, uno per l’accertamento della responsabilità, e uno per la decisione della pena. Quattro anni dopo, in Gregg contro la Georgia, la Corte Suprema torna sul tema, disegnando i confini della pena di morte accettabile da un punto di vista costituzionale.
La Corte disegna due linee guida che i parlamenti dovranno seguire per disegnare uno schema costituzionale di pena capitale. Primo, lo schema dovrà fornire criteri obiettivi per dirigere e limitare la discrezionalità dell’imposizione della pena di morte. L’obiettività di questi criteri dovranno essere motivo di appello sulle sentenze di morte. Secondo, lo schema deve permettere al giudice (sia monocratico che in giuria) di prendere in considerazione le caratteristiche e gli atti dell’imputato.
Dal 1976, dunque, sotto lo schema Gregg Vs.Georgia, la pena capitale è ripresa in quasi tutti gli Stati Uniti d’America: ci sono stati, infatti, che da l 1972 non mandano più nessuno nelle mani del boia. Sono il Kansas e il New Hampshire la, Pennsylvania e il South Dakota, che hanno giustiziato solo chi esplicitamente lo aveva chiesto. Così, si tratta degli Stati che hanno praticamente adottato una “moratoria di fatto”.
LA MORATORIA UNIVERSALE – Non che manchi una moratoria ufficiale, vera e propria, contro la pena di morte. Si tratta, anzi, di una moratoria del massimo livello, visto che ha carattere universale ed è stata approvata dalle Nazioni Unite solo quattro anni fa, nel 2007.
Con il voto di oggi, le Nazioni Unite hanno compiuto un passo senza ritorno nella pluri-decennale campagna per far terminare la vendetta dello Stato. Questa è una vittoria per tutte le comunità di ogni continente, che segna un innalzamento deciso nel modo in cui le Nazioni Unite si rapportano con le tematiche dei diritti umani. Non c’è pace senza giustizia si congratula con il governo dell’Italia e con tutte le ONG che sono state in prima linea per questo sforzo in tutti questi anni.
E’ dall’Italia che l’idea della moratoria partì, dal Partito Radicale e da Nessuno Tocchi Caino. Gli Stati Uniti d’America furono l’unico paese occidentale a votare contro l’approvazione del documento di intenti internazionale. Fino ad anni molto recenti, ad abolire totalmente la pena di morte erano stati solo il Michigan, l’Alaska e le Hawaii prima di unirsi agli Stati Uniti; il Wisconsin, il Rhode Island, il Maine, il North Dakota, il Minnesota, il West Virginia, l’Iowa e il Vermont. L’Oregon l’ha abolita per referendum nel 1964, il Distretto di Columbia l’ha ugualmente cancellata.
CHE NE PENSA OBAMA? – Nel primo decennio del 2000, si sono visti degli ulteriori passi in avanti, che hanno visto l’abolizione della pena di morte anche per come disegnata dalla sentenza Gregg. Nel 2007 è stata la volta del New Jersey, poi nel 2009 il New Mexico e l’Illinois addirittura nel 2011. Lo scenario politico è variegato, in materia: con un tale tasso di approvazione nella popolazione americana, è normale che anche autorevoli esponenti della sinistra americana non siano contrari alla pena capitale. Uno su tutti, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: il capo di Stato, per usare una sintesi pungente di un blog contrario alla pena di morte, è “a favore della pena capitale” ma è “contrario ad ammazzare la persona sbagliata”.
Obama ha scritto in una sua recente memoria che crede che la pena di morte “faccia ben poco per reprimere il crimine”. Ma che supporta la pena capitale in casi “così’ odiosi, così oltre il normale, che la comunità è giustificata nell’esprimere la massima misura di oltraggio disponendo la pena capitale.
Lo scriveva il Washington Post, e il problema è – non da poco – che il tasso di errori giudiziari è preoccupante, negli Stati Uniti. Il che vuol dire, come probabilmente è accaduto nel caso Davis, che si manda a morte la persona sbagliata. Qualcosa che, così, si avrà sulla coscienza per sempre.
I DATI – Qualche utile cartina, fornita da Wikipedia.
In rosso gli stati che effettuano la pena di morte, in blu quelli che l’hanno abolita, in verde quelli che, pur mantenendola operativa, non ne hanno più comminata nessuna. In arancione, gli stati in cui è stata dichiarata incostituzionale. Ed ecco il dato delle esecuzioni capitali dal 1625 fino al 2009.