Quel brav’uomo der Canaro… che squartò il suo aguzzino

DAJE, PUGILE – Quando riprende i sensi, Giancarlo capisce che avrebbe fatto meglio a non riaprirli mai più gli occhi. Legato mani e piedi, è appeso a uno dei ganci a cui Pietro assicura i cani mentre li tosa. Sente un dolore atroce che da ogni arto gli arriva al cervello. Vorrebbe urlare, ma ha la bocca chiusa da un fazzoletto, riesce a malapena a respirare. Il dolore lo sta facendo impazzire, e non capisce neanche da dove proviene. Poi alza gli occhi e inizia a contorcersi per liberarsi. Dio mio, dio mio, pensa, sto per morire. Davanti a sé, in unaciotola, ci sono almeno quattro dita. Almeno quattro delle sue dita. Il Canaro lo guarda, dà un tiro di coca e si avvicina con le cesoie. «Daje pugile, nun te sta a preoccupa’: ne rimangono solo sei!». Il rumore è quello di un ramo che si spezza: stock. Il dolore, invece, non può essere descritto. Stock. Stock. Stock. «Mo stamo a meno tre», dice er Canaro. Il sangue schizza ovunque. Pietro capisce che se continua di questo passo Giancarlo sarà morto entro pochi minuti. E lui non vuole. Questo momento se lo deve gustare per benino. Sono anni che subisce i soprusi di Giancarlo. Adesso che il ruolo della vittima si è invertito, il momento deve durare all’infinito. Pietro prende la benzina e la versa sulle ferite di Giancarlo. Lo vede contorcersi e dimenarsi e, più lo fa, più lui si eccita. Ne versa ancora. Poi lo guarda negli occhi e gli dà fuoco. Capisce il dolore che sta provando solo guardandolo. L’importante è che il sangue si sia fermato: le ferite si sono cauterizzate. L’importante è che il gioco vada avanti. Ora bisogna sistemare il tossico. Alla fine è quasi un’ora che sta là fuori: bisogna inventarsi qualcosa. esce e gli racconta la prima cosa verosimile. «Guarda è mejo che vai via», dice er Canaro. «Er tipo che avemo fottuto è un siciliano, Giancarlo deve sta’ parato per un po’. Ha detto che vai a casa e je parcheggi la macchina davanti al bar». Giancarlo oramai ha perso ogni speranza. Nell’oblio in cui si trova adesso aspira solo a morire. E spera che la Nera Signora venga presto a fargli visita. Ma la sua è un’illusione pia. Pietro torna ed è più eccitato che mai. Un’altra botta di coca e ancora le cesoie in mano. Lento gli sfila il fazzoletto dalla bocca, ma prima che lui riesca anche solo a dire una parola, la lingua è volata via. Tranciata di netto, zacPietro però ancora non è soddisfatto. Deve ancora completare la sua opera. E con mano certosina inizia il nuovo lavoro. Prima è il naso a sparire. Poi le orecchie. Seguono gli zigomi e le guance. «Ecco, mo sei quasi bello come un pitbull!Anzi, mo sei uguale a un pit!», dice ridendo er Canaro.

CALA IL SIPARIO – Giancarlo ora non sente più nulla. Il dolore è talmente forte che non riesce più a distinguerlo. Ti prego finiscimi, pensa. Ma Pietro, anche se lo sentisse, non esaudirebbe mai il suo desiderio. Con mano veloce gli sfila via i pantaloni e gli trancia di netto il sesso. Giancarlo, la faccia coperta di sangue, riesce a malapena a vedere quello che sta succedendo. Il vomito gli sale in gola. Pietro ride, prende la benzina, la versa su quello che rimane della sua virilità e gli dà nuovamente fuoco. Poi si volta, e con la massima tranquillità del mondo prende le chiavi della macchina e fa per uscire. «Sono le quattro e mia figlia sta uscendo da scuola. Devo andarla a prendere. Ma non preoccuparti: torno subito», e chiude dietro sé la porta. Giancarlo, o meglio, quello che rimane di Giancarlo, è praticamente senza vita. Praticamente perché, per sua sfortuna, l’estremo saluto ancora non gli è stato concesso. Deve attendere. Attendere. Ogni attimo dura un anno, ogni secondo decenni, ogni minuto secoli. Poi Pietro torna. «Adesso la famo finita», dice. E quello che rimane di Giancarlo vorrebbe quasi ringraziarlo. Ma ancora non ha capito. Pietro prende ad uno ad uno i pezzi che ha strappato dal suo corpo e inizia a infilarglieli in gola. Prima le dita: una, due, tre, fino ad arrivare a nove. Poi le orecchie, la lingua, gli zigomi, le guance. Infine Pietro prende l’ultimo dito. Lo guarda, sorride, e glielo mette lì, in culo. E in questo momento, in questo preciso istante, Giancarlo sente che la vita lo sta abbandonando, ed è quasi contento. Avrei voluto solo bere un caffè oggi, pensa. E il buio cala. Per sempre.

GIUSTIZIA? – A ritrovare il suo corpo, o meglio, quello che rimane del corpo di Giancarlo è un allevatore. L’alba è passata da poco e le pecore stanno mangiando. C’è un fagotto che brucia e va a vedere. L’orrore lo ferma a metà strada: non è un fagotto, è un corpo. Quello che rimane di un corpo. Neanche i più duri agenti della Mobile riescono a guardare quella scena, quel pezzo di carne umana. Che loro ricordino, una scena così non si era mai vista a Roma. E quando la notizia esce sui giornali, c’è la stessa sorpresa: in Italia una cosa così macabra non era mai avvenuta. Mai. Almeno a memoria d’uomo. La caccia all’uomo è spietata. Tutto il Paese è inorridito dal fattaccio. Chi ha fatto questo deve pagare. Chi ha ucciso Giancarlo Ricci deve essere consegnato alla giustizia. Deve. L’ordine, partito dai piani alti, riecheggia su ogni volante. La Magliana è messa sotto ferro e fuoco. Ottantacinque persone vengono fermate. Anche il tossico che stava fuori il bar. Il tossico che aveva accompagnato Giancarlo da Pietro. Il tossico che racconta: saranno stati i siciliani, me l’ha detto er Canaro. Er canaro? Sì, sì, er Canaro, proprio lui. Proprio lui. Che nega quando gli agenti vanno a chiedergli la storia del siciliano. Nega quando gli dicono che non convince nessuno. Nega quando trovano le macchie di sangue nel suo negozio. E sul suo portafoglio. E sul portabagagli. E sulle scarpe. E poi non nega più. «Sì», dice, «sono stato io. Gli ho tagliato le orecchie come a un doberman, gli ho aperto la testa e gli ho lavato il cervello con lo shampoo dei cani. Non ne potevo più di quell’infame. Guardate che gli ho fatto al grande pugile! L’ho smontato pezzo per pezzo, e ci sono riuscito perché lui era più grosso, ma io sono più intelligente». Il motivo?, chiedono gli agenti. «Mi insultava, mi sfotteva, m’aveva rubato la radio e per ridarmela m’aveva scucito duecento sacchi. Ma la cosa che m’ha fatto uscire di testa è stato quando ha preso a calci il mio cane. Che c’entrava lui?». La prima perizia lo dice chiaro e tondo: Pietro De Negri, Er Canaro, al momento del delitto era incapace di intendere e di volere. Ed è pericoloso socialmente. Il 12 maggio 1989, dopo nemmeno a un anno e mezzo di distanza da quel fatidico 18 febbraio 1988 che aveva cancellato Giancarlo dalla faccia della terra, Pietro torna a casa. Solo per un attimo. Sei giorni dopo è di nuovo in cella: altri periti la pensano diversamente. Così i giudici: venticinque anni in primo grado; ventisette in Appello; ventiquattro e dieci mesi in Cassazione. Di anni, alla fine, se ne fa diciassette. Il 27 ottobre del 2005 è fuori. Nessuna intervista, nessuna apparizione in tv. Vuole solo scomparire Pietro. Er Canaro della Magliana.

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