Quel che resta del calcio
16/04/2014 di Carlo Cipiciani
In quell’equilibrio verso la follia che è la vita, il calcio conta; anche per chi dice che non è vero. Il calcio è sudore, lacrime, gioia. Non è solo un gioco, anche se dovrebbe. Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio, ha detto una volta José Mourinho; perché il calcio è una metafora, uno specchio (un po’ deformato) della realtà.
Prendi il calcio italiano: campanilismo amorale, frantumazione popolare, individualismi e pressapochismi, tifo “contro” e non “per”, genio e sregolatezza. E un declino certificato anche dalla FIGC con il Report Calcio 2013: stadi sempre più vuoti, debiti in espansione, costi medi alti; reggiamo con i ricavi da diritti televisivi e con le “plusvalenze” da trasferimenti: al contrario degli “altri”, quelli bravi, le nostre squadre dipendono dalle tv, o dalla presenza – sempre più rara – di fuoriclasse da rivendere fuori.
Ma no, il nostro calcio è dinamico: crescono gli scambi di giocatori, più di duemila, un record mondiale. Ma è un facite ammuina: due volte su tre sono scambi alla pari, a titolo gratuito; polvere negli occhi, se non giochetti strani. E poi il baratto è una risorsa di poveri che cercano di sopravvivere, contrabbandata con la furbizia di ricchi scemi che tirano a campare.
Gli altri (tedeschi, spagnoli, inglesi, ma anche russi e olandesi) fanno crescere i ricavi di vendita (biglietti) e quelli commerciali (sponsor e merchandising): i veri ricavi operativi, che da noi – manco a dirlo – sono componenti residuali. Ma in qualcosa siamo forti: i costi medi delle società sono come quelli degli spagnoli, e non lontani da quelli tedeschi.
E le serie minori, dove i diritti Tv non ci sono o quasi? Lasciamo perdere. E le prospettive dei settori giovanili, cioè il futuro? Cambiamo argomento. E gli stadi, cioé le infrastrutture? E via proseguendo. Segnali che qualcosa sta cambiando? Non pervenuti. E’ meglio accapigliarsi per una prova tv, per un coro razzista, per un errore arbitrale. Meglio, più comodo che guardarsi dentro.
La poesia di un calcio che è stato uno dei migliori del mondo va a farsi friggere. E, anche se ogni tanto il talento o lo stellone ci soccorre, anche se “Italians do it better”, anche nel pallone, perdiamo appeal: sempre meno gente all’estero è interessata ai nostri campionati, alla nostra nazionale. Già, quella squadra color cielo italiano che odiamo un po’ tutti per 4 anni, salvo poi sventolare il bandierone quando (miracolo!) vinciamo un mondiale.
Chissà perché ci siamo ridotti così. Forse ha ragione lo “Special One”: chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio. E in Italia a sapere solo di calcio sono tanti, troppi. Specie tra coloro che il calcio lo comandano.
Mentre un altro campionato finisce, in quell’equilibrio verso la follia che è il calcio, siamo solo capaci di tifare contro, rosicare o sfottere (a seconda della bandiera di appartenenza). Del calcio italiano resta solo quell’azzurro della maglia della nostra nazionale, bello come il cielo, il magnifico cielo italiano.
Ma è sempre più buio, sempre più notte, sotto questo cielo d’Italia. Anche nel calcio.