Referendum costituzionale 2016: quando, come si vota e i sondaggi sulla riforma del Senato
04/12/2016 di Alberto Sofia
REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016
Ore 09:15: In Italia si vota dalle ore 7 nei 61551 seggi allestiti nei 7998 Comuni del nostro Paese. All’estero i seggi sono stati chiusi giovedì 1 dicembre 2016, ma i risultati saranno forniti insieme a quelli italiani. Alle ore 23 le TV forniranno i primi exit poll: lo scrutinio dovrebbe essere veloce visto il tipo di consultazione, così che prima di mezzanotte potrebbe già arrivare proiezioni piuttosto affidabili.
Dove fallì il governo Berlusconi, ritenterà Matteo Renzi. Dieci anni dopo la bocciatura elettorale della devolution e delle riforme del centrodestra, sarà il referendum costituzionale 2016 il passaggio cruciale della legislatura.
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Affluenza Referendum Costituzionale 2016: i dati della partecipazione in diretta
Sarà l’ultima tappa, quella decisiva, di un percorso durato oltre due anni per il disegno di legge Boschi. Forgiato con la storica rielezione al Colle di Giorgio Napolitano, vero regista delle riforme. Ma nato tra le stanze del Nazareno. Lì, nella sede del Partito democratico, Renzi e il Cav siglarono un accordo storico per riformare le istituzioni e approvare la nuova legge elettorale. Un’intesa poi strappata nei giorni dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Con la stessa Forza Italia che oggi bolla come “deriva autoritaria” quelle stesse riforme che aveva approvato in Parlamento.
Numeri alla mano, poco è cambiato. Almeno in Aula. Perché è stata l’intesa tra Pd, Ncd, centristi e transfughi del berlusconismo, con l’Ala di Denis Verdini decisiva, a blindare le riforme costituzionali. Approvate in via definitiva, dopo sei passaggi parlamentari tra Camera e Senato, con le opposizioni fuori dall’Aula e le accuse al governo di aver cambiato la Costituzione «a colpi di maggioranza».
REFERENDUM COSTITUZIONALE: IL PD DIVISO SUL VOTO
Polemiche incrociate che si trascineranno fino al voto del referendum. Previsto per il 4 dicembre. Una data scelta dopo settimane di polemiche, da parte delle opposizioni, per la mancata ufficializzazione e per lo slittamento della consultazione. C’era chi ipotizzava un voto già a fine settembre, alla fine le urne saranno convocate a venti giorni dal Natale. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, dopo il via libera arrivato dalla Cassazione. Una data confermata ancora da Renzi, nonostante le indiscrezioni su un possibile slittamento, dopo il terremoto che ha colpito l’Italia Centrale prima a fine agosto e ancora lo scorso 30 ottobre. L’ipotesi di uno spostamento era stata rilanciata da diversi media, poi lo stesso ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva “aperto” alla possibilità di posticipare le urne al 2017. «Non esiste, è surreale, evitiamo di incrociare referendum e terremoto, non hanno nulla a che vedere», ha tagliato corto il premier. Lo stesso Renzi era stato accusato dal Fatto: in un retroscena il quotidiano di Travaglio aveva riportato un presunto tentativo del premier di far slittare le urne, contattando Silvio Berlusconi. Un invito che sarebbe stato respinto.
Veleni e accuse incrociate di una campagna elettorale che è già iniziata da mesi, con i sondaggi ancora in equilibrio tra i due fronti del “sì” e del “no“. Sarà quasi una sfida personale per Matteo Renzi, al di là del cambio di tono di Palazzo Chigi dopo i risultati modesti del Pd alle Amministrative e le polemiche sulla personalizzazione del voto. Perché, ne è consapevole il premier, la consultazione sarà uno spartiacque per il Paese. Al di là del verdetto finale. Dopo decenni di tentativi falliti, bicamerali naufragate e flop elettorali, rivendicano il premier, il Pd e le forze della maggioranza, in gioco c’è lo stesso futuro delle istituzioni.
Non è un caso che Renzi abbia per mesi legato il verdetto al suo stesso incarico: «Se perdo, lascio». Tradotto, indietro non si torna, nella mente del presidente del Consiglio. Quasi un azzardo, per il rischio di compattare le opposizioni in chiave antirenzista, al di là dei contenuti delle stesse riforme. Non a caso “smorzato” in corsa, nel tentativo di spersonalizzare la consultazione, dietro le consulenze comunicative di Jim Messina, il guru americano che già spinse Barack Obama alla riconferma nelle presidenziali 2012. E al quale Renzi ha affidato la strategia comunicativa referendaria (compito per il quale guadagnerà circa 400mila euro, parte dei quasi 3 milioni di euro investiti dal Pd nella campagna di “Basta un sì“, ndr). È cambiato il linguaggio, non la sostanza del messaggio renziano. Perché nella narrazione di Palazzo Chigi la sfida resta quella tra gli innovatori del «sì» contro i «conservatori del no». Con o contro il governo. La stessa Boschi ha provocato le opposizioni: «Chi propone il no butta via due anni di lavoro. Vuol dire non rispettare il lavoro che il Parlamento ha fatto: sei votazioni con maggioranze che hanno sfiorato il 60%».
Una linea comunicativa contestata dal fronte eterogeneo delle opposizioni, dal M5S al centrodestra, fino a Sinistra italiana. Ma indigesta anche per la stessa minoranza del Partito democratico di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, per mesi ambigua sul sostegno al referendum, poi schierata sul No.
Tra i big del Nazareno, il primo a esporsi contro la riforma era stato però l’ex premier Massimo D’Alema, avversario storico di Matteo Renzi, lanciando il comitato del “centrosinistra per il No” dal Cinema Farnese: «Non vogliamo dividere il Pd. Ma una vittoria del No segnerebbe la fine del Partito della Nazione renziano».
«Vuole soltanto abbattere Renzi», è la replica unanime dei vertici. Trame smentite dal vecchio Lider Maximo: «Non cerco poltrone: mi sono dimesso da premier dopo aver perso elezioni in modo assai meno catastrofico di come le ha perse Renzi, non mi sono ricandidato in Parlamento. Non voglio nessun incarico ma pretendo di battermi nelle cose in cui credo». Stessa posizione subito seguita da altri dieci parlamentari dem, tra filo-bersaniani, bindiani ed ex civatiani, che hanno dichiarato che voteranno “no” al referendum costituzionale 2016. Ovvero, i senatori Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiuti e Walter Tocci (l’unico che aveva già aveva votato contro il ddl Boschi), i deputati Luisa Bossa, Angelo Capodicasa e il prodiano Franco Monaco.
Una piccola fronda che è però cresciuta con lo strappo ufficiale della Sinistra riformistaa di Bersani e Speranza, l’area più oltranzista della minoranza PD che ha deciso di strappare, non fidandosi delle “aperture” di Matteo Renzi sull’Italicum, la legge elettorale a doppio turno e con premio di maggioranza alla lista che la stessa minoranza non ha votato e chiede da mesi di cambiare. Tradotto, il referendum costituzionale 2016 sarà un antipasto del Congresso, un derby alle urne tra due anime inconciliabili tra loro, Renzi e la sinistra del partito.
Non è un caso che la Direzione Pd al Nazareno del 10 ottobre rischiava di trasformarsi già nel vertice della scissione, con un implosione del partito e l’annuncio ufficiale del No della minoranza. Renzi ha messo Bersani e Speranza quasi alla porta, li ha provocati rivendicando di voler “togliere l’alibi” dell’Italicum, istituendo una commissione interna per cominciare a discutere di modifiche alla legge elettorale. Eppure, quel che conta restano i tempi. Perché il premier ha promesso l’apertura del tavolo della trattativa soltanto dopo il referendum, mentre la minoranza pretendeva una proposta politica del partito immediata. Alla fine, lo scontro finale è stato (ancora una volta) rinviato, semmai ci sarà, tra gli imbarazzi e i tormenti di una minoranza che ha paura di rompere con Renzi, di fronte allo spettro della scissione. Una ricomposizione prima del referendum è però ormai impossibile. Al massimo, Renzi è riuscito a dividere le diverse anime delle minoranze, incassando il sostegno di Gianni Cuperlo, per mesi critico. L’ex presidente dem aveva rincorso una pax interna in extremis, anche a costo del suo stesso incarico. Per questo aveva annunciato che si sarebbe dimesso da deputato se fosse stato costretto a votare No al referendum, in caso di mancato accordo sull’Italicum, prima delle urne. Non ce ne sarà bisogno: perché Cuperlo ha deciso di firmare l’intesa interna e dichiarato il suo sostegno il 4 dicembre alle ragioni del “Sì”
Al contrario, Sinistra Riformista di Bersani e Speranza ha confermato la sua contrarietà, considerando ancora insufficienti le aperture di Renzi, bollate come un bluff: «Se Renzi avesse voluto ricucire sarebbe arrivato in Direzione con una proposta concreta. Invece vuole solo dire: vedete, è colpa della minoranza. Vuole scaricare su di noi tutte le responsabilità della rottura. L’intesa in commissione? Nient’altro che una carta d’intenti, senza valore». Eppure, aveva preso tempo Bersani, non accodandosi alle posizioni incendiarie dalemiane, pur avvertendo alla Festa dell’Unità di Roma la sua insofferenza: «Se si votasse domani, voterei no». Per questo attendeva un segnale di unità dal premier e segretario. Ma non è arrivato: né alla Festa nazionale a Catania. Né, almeno secondo la minoranza, nella Direzione dem convocata da Renzi sull’Italicum. E la linea non è cambiata: seppur tra mille tormenti, la Ditta voterà “No” al referendum costituzionale 2016.
REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016 E ITALICUM: UNA PARTITA INCROCIATA
Il motivo? Il nodo resta l’Italicum, partita incrociata con quella del referendum costituzionale 2016. Perché la minoranza di Bersani denuncia ancora come la legge elettorale, se collegata al disegno di legge Boschi-Renzi, creerebbe non poche storture all’assetto istituzionale: «Il combinato disposto tra norme costituzionali e legge elettorale rompe e deforma l’equilibrio democratico». Né la minoranza si fida delle promesse renziane. Perché, spiegano fonti interne, se vincerà il No gli scenari cambieranno, mentre se vincerà il “Sì” il premier potrebbe limitarsi a «poche modifiche: quelle che gli bastano per accontentare Alfano e Verdini, con il premio alla coalizione. Le stesse che chiede, non a caso, pure Franceschini…».
Certo, perché cambiare la legge elettorale resta un’esigenza di quasi tutto l’arco parlamentare, da pezzi della maggioranza renziana (con il ministro dei Beni culturali su tutti) agli alleati centristi ed ex berlusconiani di Area popolare e della verdiniana ALA. E ora pure dall’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, che ha anche bacchettato il premier per aver personalizzato la campagna elettorale: «Campagna partita male, ma il presidente del Consiglio ha capito gli errori e si è corretto».
Ma se Renzi ha incassato le critiche del presidente emerito, sulle pressioni per cambiare la legge elettorale, almeno per ora, si è sbilanciato poco. Anche per una questione di credibilità. Certo, quell’Italicum voluto dal premier sull’onda del 41% alle Europee sembra oggi una legge perfetta per il M5S. Ma Renzi ha più volte blindato la legge, rivendicando pure che sarebbe stata “copiata all’estero“. Tradotto, potrà cambiare, ma senza forzature. Soltanto se sarà il Parlamento a trovare un’intesa e una nuova maggioranza. E non certo prima del referendum. Lo dimostra anche la mozione della maggioranza approvata a Montecitorio, ancora vaga su tempi e possibili modifiche:
«La Camera si impegna ad avviare, nelle sedi competenti, una discussione sulla legge 6 maggio 2015, n. 52, al fine di consentire ai diversi gruppi parlamentari di esplicitare le proprie eventuali proposte di modifica della legge elettorale attualmente vigente e valutare la possibile convergenza sulle suddette proposte».
Soltanto un “impegno” a trovare nuove intese, quasi tautologico. Né ci saranno accelerazioni sui tempi dopo che Renzi ha promosso una commissione interna, allargata alla minoranza, per studiare le possibili modifiche e sondare possibili accordi in Parlamento. Perché, nonostante Renzi abbia aperto alle richieste di modifica – collegi e superamento del ballottaggio, con un premio (di coalizione o di lista) che garantisca comunque la governabilità, oltre all’introduzione della legge Chiti-Fornaro per l’elezione diretta dei senatori – tutto viene rinviato al post-referendum.
Trovare un accordo largo in Parlamento non è però semplice, anche perché gli interessi restano differenti tra le forze politiche. Da una parte c’è la stessa minoranza bersaniana, che ha proposto il Mattarellum 2.0, un sistema misto che prevede l’elezione dei deputati in 475 collegi uninominali a turno unico e 12 eletti all’estero con sistema proporzionale. Altri 143 seggi sarebbero assegnati così: 90 alla prima lista o coalizione, fino a un totale massimo di 350 deputati; 30 alla seconda, 23 divisi tra chi supera il 2% e ha meno di 20 eletti (per garantire la rappresentanza dei partiti più piccoli). Una proposta sul quale può convergere anche Sinistra Italiana, che già chiedeva il ritorno del Mattarellum.
Al contrario, da Area Popolare insistono per ottenere alcuni correzioni all’Italicum: passaggio al premio alla coalizione, abolizione del ballottaggio e un premio di maggioranza ridotto rispetto a quello attuale. C’è anche il M5S che si tira fuori da possibili accordi, mentre Forza Italia rifiuta di trattare prima del voto del 4 dicembre. Tradotto, una babele. Ma tra chi si muove nell’ombra c’è soprattutto Denis Verdini, che – al di là di quale sarà il verdetto del referendum – lavora già per un nuova intesa Nazarena, in chiave antigrillina. Diverse le bozze di riforma elettorale fatte circolare dall’ex sodale del Cav, compreso un sistema “alla tedesca”, senza ballottaggio. Una legge – ribattezzata Verdinellum – con cento o 150 collegi piccoli, ognuno in grado di eleggere tre deputati. E con il resto eletto con proporzionale e soglia al 3%.
Quel che è certo è che, al contrario di Cuperlo, per la minoranza bersaniana le promesse di Renzi non possono bastare per blindare l’unità al Nazareno. Non è un caso che in Aula la minoranza avesse già scelto di non partecipare al voto sulla mozione, così come in Direzione avesse deciso di disertare il voto sulla relazione del segretario. Una linea confermata con la scelta di votare “No” il 4 dicembre.
Chiaro che la decisione di Cuperlo di firmare il documento interno divida l’unita – già precaria – della minoranze Pd. Ma che la posizione di Cuperlo fosse più aperturista era ormai chiaro da settimane. Lo stesso ex presidente dem si era presentato alla manifestazione del Partito democratico a Piazza del Popolo per il “Sì” e l’Europa. Un segnale di distensione, in attesa che la commissione dem sull’Italicum ufficializzasse la sintesi. «Ho firmato perché l’accordo trovato in commissione rappresenta un passo in avanti. Non sono incoerente, quel documento è stato firmato da Renzi e raccoglie tutte le nostre richieste. Non posso che fidarmi», si è difeso Cuperlo. Bersani e Speranza non hanno affondato, ma è chiaro che ora la distanza si sia allargata tra le due anime della sinistra interna.
REFERENDUM COSTITUZIONALE: SLITTA IL VERDETTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULL’ITALICUM
Sul destino del referendum costituzionale 2016 poteva pesare anche un’altra variabile: l’intervento della Consulta, che doveva riunirsi il 4 ottobre per esprimersi sulla costituzionalità dell’Italicum, dopo i ricorsi sollevati dai Tribunali di Messina e Torino. Il verdetto è però stato rinviato a data da destinarsi, così com’era prevedibile. Il responso dei giudici poco prima del voto, è chiaro, rischiava di scatenare polemiche e accuse di ingerenza politica. Allo stesso tempo, la decisione offrirà più tempo alle forze politiche in Parlamento per trovare un eventuale accordo su una nuova legge.
Al di là della data slittata, l’avvocatura dello Stato chiederà alla Consulta che il ricorso sia dichiarato “inammissibile“, perché non si ravviserebbe alcuna lesione di diritti. Il motivo? Palazzo Chigi ricostruisce nelle sue memorie come l’Italicum, diventato legge nel 2015, sia entrato in vigore soltanto da luglio 2016. Tradotto, non è mai stato applicato. Al contrario, il ricorso è partito prima, nell’ottobre dello scorso anno. Lo slittamento del verdetto è una buona notizia anche per Renzi: «Bene, il referendum non riguarda la legge elettorale. Ora possiamo entrare nel merito». Chiaro che un verdetto negativo prima del voto avrebbe cambiato scenari, posizionamenti e anche i piani del premier. Perché, politicamente, referendum e legge elettorale hanno destini incrociati.
QUANDO SI VOTA PER IL REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016
Il 26 settembre il Consiglio dei ministri ha intanto deciso, dopo settimane di polemiche, quando si voterà per il referendum costituzionale 2016. Diverse erano state le date evocate per le urne. E le opposizioni aveva più volte contestato lo slittamento del voto: già evocato per fine settembre, il voto è rimasto un’incognita per mesi. Fino alla scelta del governo. Si voterà a poche settimane dalle festività natalizie, il 4 dicembre, con i seggi aperti dalle 7 alle 23..
Con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza del 15 agosto, era stata la Cassazione a validare le circa 580 mila firme raccolte dal Comitato per il sì. La scelta della data ha invece seguito un determinato iter, regolato dalle norme. La legge 352 del 1970 stabilisce infatti che il referendum viene indetto con un decreto ad hoc dal presidente della Repubblica, ma su deliberazione del Consiglio dei ministri che sceglie la data. Come? Il governo ha a disposizione 60 giorni dal via libera della Cassazione per decidere la data del referendum, poi tra i 50 e i 70 giorni per celebrare la consultazione. Il Consiglio dei ministri, riunito il 26 settembre, poteva scegliere tra il 27 novembre o il 4 dicembre. Alla fine, ha prevalso la seconda opzione. Tradotto, di fronte a sondaggi tutt’altro che esaltanti, il premier può sfruttare ancora qualche mese, allungando la campagna elettorale e cercando di recuperare consensi.
«I nostri comitati sono tantissimi, arrivano quasi a quota tremila», ha rivendicato il presidente del Consiglio. Comitati che hanno già superato quota di 300mila euro per le donazioni.
Nelle scorse settimane, oltre alle opposizioni, era stata la stessa minoranza dem ad aver attaccato il governo per non aver indicato una data certa: «Sta perdendo tempo nella speranza che si rafforzino le ragioni del Sì», aveva attaccato il senatore bersaniano Mucchetti, tra i dissidenti già schierati per il “No”. Il timore è che la stessa legge di bilancio, accusano, possa «essere asservita al referendum, pensata soltanto in funzione del consenso». Polemiche respinte dal premier, secondo cui, tutto è avvenuto secondo i termini di legge. Il suo tour a sostegno del “Sì” è ripartito dalla “sua” Firenze, per una convention all’Obihall il 29 settembre, nella cornice simbolica del renzismo delle origini. Lì, dove aveva lanciato la campagna per le Comunali e dove festeggiò anche la vittoria alle primarie per la segreteria dem, Renzi ha inaugurato la campagna elettorale. Quella che ha poi avuto lo sprint decisivo nella stessa città toscana, a ridosso del voto. Questo perché Renzi ha rilanciato la campagna per il sì con la nuova edizione della Leopolda, la numero 7, organizzata nel weekend tra il 4 e il 6 novembre, a un mese esatto dal voto del referendum costituzionale 2016. Un evento che, nei piani del premier, è stata l’occasione adatta per lanciare l’ultima fase della campagna per il “Sì”. L’accelerazione finale. E dove non sono mancati attacchi alla stessa minoranza di Bersani: «Chi ha fatto morire l’Ulivo ora tenta di far morire il Pdeorici della Ditta quando ci sono loro, anarchici quando ci sono gli altri» alla guida del partito. Attacchi incrociati che potrebbero rappresentare un punto di non ritorno nel rapporto tra Renzi e Bersani.
COME SI VOTA PER IL REFERENDUM COSTITUZIONALE: IL QUESITO
Ma come si voterà il 4 dicembre? Al di là dell’iniziativa dei Radicali per spacchettare in più quesiti la consultazione, Renzi e il Pd, così come le opposizioni, non hanno appoggiato la proposta. E si voterà così con un unico quesito:
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n.88 del 15 aprile 2016?».
Il quesito è stato rilanciato via Twitter dal presidente del Consiglio il 22 settembre, scatenando le polemiche delle opposizioni, perché diffuso prima di ufficializzare la data. In realtà, si tratta di polemiche infondate. Perché era già contenuto nell’ordinanza con cui la Corte suprema di Cassazione dichiarava conforme e ammetteva la richiesta di referendum, lo scorso 8 agosto.
Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana hanno fatto ricorso contro il testo del quesito stesso. Il motivo? Secondo i ricorrenti sulla scheda mancherebbero gli articoli della Costituzione che saranno modificati dalla riforma, riportando soltanto il titolo del disegno di legge Boschi. Quello che, per SI e M5S, riporta una «presunta finalità della legge che non trova specifico riferimento in alcuna delle norme revisionate».Tradotto, per il fronte del No il quesito sarebbe fuorviante. O peggio, c’è chi lo bolla come un “quesito truffa” , come denuncia il Movimento 5 Stelle. Il verdetto del TAR ha però reso vane le pretese delle opposizioni. Respinto per “difetto di giurisidizione“. Ovvero, per il Tribunale amministrativo il caso non rientra le proprie competenze. Alfano, capo del Viminale, sembrava guardare già avanti prima del verdetto: «Abbiamo già dato il via libera per la stampa della scheda referendaria». Allo stesso modo è stato bocciato anche il ricorso di Valerio Onida dal Tribunale di Milano. Cade così l’ultima possibilità per uno spacchettamento del quesito.
COSA CAMBIA CON LA RIFORMA DEL SENATO E IL DDL BOSCHI
Ma quali saranno gli articoli e le parti della Carta che saranno modificati nel caso di una vittoria del Sì al referendum costituzionale 2016? Superamento del bicameralismo paritario e trasformazione del Senato, soppressione del Cnel, revisione del titolo V della II parte della Costituzione, riforma dell’elezione del presidente della Repubblica e revisione della disciplina dei referendum e delle leggi di iniziativa popolare: sono queste le macro-aree della riforma approvata in doppia lettura alla Camera e al Senato e sulla quale saranno così chiamati a esprimersi gli italiani.
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SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PARITARIO E NUOVO SENATO
Il superamento del bicameralismo è il nodo principale della riforma, tema dibattuto e rievocato da decenni, ma mai portato a termine. Se, Costituzione alla mano, il processo legislativo prevede che tutte le leggi, ordinarie e costituzionali, siano approvate sia da Montecitorio che da Palazzo Madama, allo stesso modo come l’esecutivo deve incassare la fiducia sia dal Senato che dalla Camera, la riforma punta a superare questo assetto. Se il referendum venisse approvato dagli italiani (basta la maggioranza dei votanti, non è necessario alcun quorum, ndr), la Camera (che resta composta da 630 deputati) diventerebbe l’unico organo – di fatto – eletto dai cittadini a suffragio universale diretto. Allo stesso modo sarebbe l’unico ad avere il compito di approvare le leggi ordinarie e di bilancio e accordare la fiducia al governo. Scompare quindi la “navette“, il passaggio di legge da una Camera all’altra, simbolo del bicameralismo.
Il nuovo Senato, che si trasformerà in organo rappresentativo delle autonomie regionali, passerà da 315 senatori a 100 membri: 95 saranno scelti dai consigli regionali, che nomineranno 21 sindaci (uno per regione, ad eccezione dei due del Trentino-Alto Adige) e 74 consiglieri regionali. Resta il nodo del meccanismo dell’elezione dei futuri senatori. Un accordo raggiunto in casa Pd ha sbloccato lo stallo in Senato con la sinistra del partito: l’elezione dei nuovi membri di Palazzo Madama sarà «in conformità alle scelte espresse dagli elettori in occasione delle elezioni regionali». Un modo per “aggirare” il meccanismo di elezione indiretta e trasformare la designazione dei Consigli in una sorta di ratifica. Serve però una legge quadro nazionale, votata dal Parlamento. Una normativa che, al di là delle promesse di Palazzo Chigi e del disegno di legge presentato dalla minoranza dem, non ha ancora alcuna certezza sui tempi. Con il rischio che venga rinviata sine die. Cestinata. Resterebbe la norma transitoria: quella che prevede l’elezione da parte di ogni Consiglio regionale dei consiglieri da mandare nel nuovo Senato, tra i suoi componenti. Con buona pace della minoranza bersaniana.
Ai 95 senatori (che resteranno in carica per la durata del loro mandato di amministratori locali, ndr) si aggiungeranno anche cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica, in carica per sette anni. La carica del senatore a vita resterà soltanto per gli ex presidenti della Repubblica: quelli attuali (Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Carlo Rubbia, Renzo Piano ed Elena Cattaneo) restano in carica, ma non verranno sostituiti.
I senatori non saranno più pagati dal Senato. Percepiranno soltanto lo stipendio da amministratori locali. Un meccanismo che permetterà una riduzione dei costi della politica. In totale, rivendica il governo, con la riforma si prevederanno risparmi per 500 milioni di euro circa. Numeri contestati però dalle opposizioni e non solo, convinte che la riforma preveda risparmi pari soltanto al 9% circa, 57,7 milioni di euro. In una nota della stessa Ragioneria dello Stato del 28 ottobre 2014 si parla di 49 milioni dal taglio del numero dei senatori e delle relative indennità e di altri 8,7 dalla chiusura del Cnel. Nonostante dalla soppressione delle province il governo preveda di voler recuperare altri 320 milioni, nel documento si parla di cifre non quantificabili.
Ma quali saranno le competenze del nuovo Senato? Potrà esprimere pareri sui progetti di legge approvati dalla Camera e proporre modifiche entro trenta giorni dall’approvazione della legge. La Camera potrà però non accogliere gli emendamenti del Senato. Se si tratta di leggi che riguardano però competenze legislative esclusive delle Regioni o leggi di bilancio, la Camera può non tenere conto delle modifiche richieste dal Senato soltanto se a maggioranza assoluta dei deputati.
I nuovi senatori continueranno invece a partecipare anche all’elezione del presidente della Repubblica, così come in quella dei componenti del Consiglio superiore della magistratura e dei giudici della Corte costituzionale (dei 15 giudici, 3 eletti da Montecitorio e 2 da Palazzo Madama). Il nuovo Senato avrà invece competenza legislativa piena soltanto sulle leggi costituzionali e su quelle di revisione costituzionale. La funzione principale del Senato sarà però il compito di raccordo tra lo Stato e le autonomie locali, regioni e Comuni. Nel solo caso di leggi che riguardano le competenze regionali, il voto del Senato è obbligatorio.
Per quanto riguarda il nodo immunità, i nuovi senatori avranno le stesse tutele dei deputati. Niente possibilità di arresto o di venire intercettati senza l’autorizzazione preventiva del Senato.
C’è anche l’introduzione del “voto a data certa“, con il nuovo articolo 72 della Carta. Si prevede che l’esecutivo possa richiedere una via preferenziale per approvare un disegno di legge che considera «essenziale per l’attuazione del programma di governo». La Camera vota sulla richiesta del governo entro cinque giorni: se la richiesta viene accolta, dovrà concludere discussione e votazione entro 70 giorni (con una possibile proroga di 15 giorni al massimo). Non è possibile richiedere il “voto a data certa” per le leggi di competenza del Senato, quelle elettorali e di bilancio, la ratifica dei trattati internazionali e le leggi di amnistia e indulto. Vengono anche introdotti limiti al governo sui contenuti dei decreti legge.
Un altro punto riguarda l’introduzione delle “quote rosa“: all’articolo 55 si aggiunge il comma che decreta: «Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza». Norme che rimandano anche alle leggi elettorali già vigenti per i Consigli Regionali.
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REVISIONE DEL TITOLO V DELLA II PARTE COSTITUZIONE
Con la riforma costituzionale si prevede una riduzione forte delle competenze delle Regioni e un tentativo di rendere più chiari i ruoli di Stato e autonomie locali. Il Titolo V della Costituzione, già riformato nel 2001 dal centrosinistra, regola questi rapporti, ma è materia che ha scatenato in passato diversi contenzioni e conflitti di competenze. Il rischio però resta anche in futuro. Lo Stato può infatti intervenire in materia di esclusiva competenza regionale nel caso «lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Tra le competenze riportate allo Stato quelle su energia, infrastrutture strategiche e sistema nazionale di protezione civile.
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SOPPRESSIONE DEL CNEL E ABOLIZIONE DELLE PROVINCE
La riforma Boschi abolisce definitivamente le Province, facendo seguito alla legge Delrio. La Repubblica sarà quindi costituita “dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato“.
Il vecchio articolo 99 della Costituzione viene abolito, quindi scompare il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, oggi organo «di consulenza delle Camere e del Governo» composto da 64 consiglieri tra «esperti e rappresentanti delle categorie produttive». Finora la Carta stabiliva che il Cnel avesse «iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge». Se passerà il referendum, sarà quindi abolito.
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ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Si modifica il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica. Non ci sarà più il meccanismo dei grandi elettori, perché parteciperanno al voto solo deputati e senatori (e non più i 59 delegati regionali). Viene confermato il quorum delle prime tre votazioni: per l’elezione del capo dello Stato serve la maggioranza qualificata dei due terzi (ovvero il 66%). Dal quarto scrutinio in poi, invece, il quorum cambia: dal quarto al sesto serve la maggioranza di tre quinti (60%), in aumento rispetto all’attuale maggioranza assoluta (50%). Infine, dal settimo scrutinio in poi è necessaria la maggioranza di tre quinti dei votanti, invece della maggioranza degli aventi diritto. Rispetto a oggi, il capo dello Stato potrà sciogliere soltanto la Camera, non più il Senato.
Cambia anche la gerarchia delle cariche dello Stato. La seconda carica dello Stato, oggi il presidente del Senato, diventa il numero uno della Camera dei deputati.
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DISCIPLINA DEL REFERENDUM
Cambia anche la disciplina del referendum. Per quanto riguarda quello abrogativo, il voto resta valido se partecipa il 50% degli aventi diritto, come oggi. Ma con un’eccezione. Viene introdotto un quorum minore per i referendum sui quali sono state raccolte 800mila firme anziché 500mila. In questo caso per renderlo valido basterà la metà degli elettori delle ultime elezioni politiche e non la metà degli iscritti alle liste elettorali.
Ci sono poi delle novità. Vengono introdotti il referendum propositivo e quello di indirizzo. Servirà però una legge costituzionale e poi una legge ordinaria per decidere quali siano le modalità e gli effetti di queste consultazioni.
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LEGGI DI INIZIATIVA POPOLARE
Il disegno di legge Boschi ha cambia anche l’articolo 71 della Costituzione che disciplina le leggi di iniziativa popolare, previste dalla Carta ma storicamente ignorate dalle Camere. Salirà a 150mila il numero di firme necessarie. Ma viene inserita una garanzia affinché queste proposte siano davvero discusse e votate.
CHI VOTA SÌ AL REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016
Gli schieramenti in vista del referendum sono quasi definiti. I fronti del No e del Sì sono quasi tutto schierati, con una grande eccezione. Il ruolo della sinistra bersaniana all’interno del Partito democratico. Una decisione che pesa, e non poco, sullo stesso verdetto. Perché se è vero che conteranno più le decisioni dei cittadini rispetto a quelle del ceto politico, il sostegno (in cantiere) della vecchia Ditta alle ragioni del No, seguendo la linea D’Alema, può spostare consensi. Per il Partito democratico sarebbe l’anticamera di quella scissione spesso evocata nello sfondo dell’eterno scontro tra minoranze e nuovo corso renziano.
Se il resto del Pd (renziani, franceschiniani, correnti come Rifare l’Italia del presidente del partito Matteo Orfini e Sinistra e Cambiamento del ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, così come l’ex portavoce di Romano Prodi Sandra Zampa) sostengono il SI, voteranno a favore anche i Socialisti di Nencini e l’Italia dei Valori. Ma non solo. A destra del Partito democratico, si schierano nel fronte del sì i centristi e pezzi del vecchio centrodestra berlusconiano, oggi interni al governo Renzi o già tra le forze di maggioranza. Da quel che resta del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano (seppur il partito sia ormai da mesi alla soglia dell’implosione) all’ALA dell’ex sodale del Cav, Denis Verdini. Fino al movimento Fare! del sindaco di Verona ed ex leghista Flavio Tosi, a un pezzo dell’Udc (quello del presidente D’Alia) ai Moderati di Mimmo Portas e a Scelta Civica-Cittadini per l’Italia. Partito che a sua volta ha subito una scissione, con il viceministro all’Economia Enrico Zanetti protagonista. Una stampella moderata che punta a riaggregarsi dopo la diaspora centrista. La prima tappa per Verdini & Co doveva essere l’adesione a un unico comitato congiunto. Alla fine, saranno però due. Da una parte “Liberi sì” lanciato dall’ex presidente del Senato Marcello Pera e da Giuliano Urbani, già tra i fondatori e tessera numero 2 di Forza Italia, al quale hanno aderito Verdini e i suoi fedelissimi, con Sc di Zanetti. Dall’altro, gli alfaniani, che sostengono i Comitati “InSìeme Sì Cambia“, presieduti da Giovanni Guzzetta e Lorenzo Ornaghi. Tradotto, quel che doveva essere il primo passo della riunificazione in casa centristi, rischia di trasformarsi in una “conta” interna, per la leadership futura di un possibile contenitore moderato.
Per il sì si sono schierati anche Centro democratico-Democrazia solidale di Bruno Tabacci e Lorenzo Dellai.
Hanno votato in Parlamento a favore del disegno di legge Boschi anche i parlamentari della Svp (Südtiroler Volkspartei), la Stella Alpina che rappresenta gli interessi dei gruppi linguistici tedesco e ladino della Provincia autonoma di Bolzano. Certo, l’impianto è stato accusato di essere centralista, ma la delegazione Svp ha legato il suo voto favorevole all’inserimento della clausola di salvaguardia: gli articoli sui poteri delle Regioni non avranno valore per le autonomie speciali fino a quando non sarà attuata la modifica degli Statuti. E con l’intesa preliminare tra Stato e Provincia. Il partito è però diviso, nonostante per il presidente Arno Kompatscher abbia «ottenuto il massimo». Servirà un congresso ad hoc, di fronte al crescere dell’insofferenza interna al partito.
C’è poi la posizione più delicata dei Radicali, fortemente critici per la scelta di governo e partiti di non sostenere lo spacchettamento dei quesiti. Insieme al Comitato per la Libertà di Voto, i Radicali hanno rivendicato l’approvazione, in vista del referendum costituzionale 2016, di un Referendum Act come «condizione minima per non rendere insostenibili gli effetti della riscrittura della Costituzione voluta dal Governo Renzi e ora sottoposta al voto popolare». Una legge che semplifichi le procedure, consenta le firme online e ampli la platea degli autenticatori, abolendo o riducendo il quorum.
CHI VOTA NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016
Anche il fronte del no al referendum sarà a dir poco eterogeneo, dato che raccoglierà tutte le opposizioni al governo Renzi, seppur con comitati separati: dal centrodestra al Movimento 5 Stelle, fino a Sinistra Italiana. In attesa che si schierino anche i bersaniani del Pd. Non è un caso che lo stesso Renzi, Boschi e il nuovo corso dem abbiano più volte attaccato quella che viene bollata come una sorta di “armata brancaleone“: «La loro è ormai una alleanza strutturata: tutti contro il governo. Sarà bello vedere insieme Salvini e Vendola, Grillo e Brunetta e Berlusconi», ha affondato la stessa ministra per le riforme.
Eppure, anche nel fronte del no le sfumature restano differenti. Soprattutto in casa centrodestra. C’è il no totale di Fratelli d’Italia, della Lega Nord di Matteo Salvini e di parte di Forza Italia, ben rappresentato dalla linea oltranzista di Renato Brunetta, capogruppo del partito azzurro alla Camera. Ma dentro Forza Italia, divisa nella solita faida tra correnti, le posizioni sono differenti. Al di là del “no” sbandierato dallo stesso Silvio Berlusconi e annunciato da Stefano Parisi, l’ex city manager al quale il Cav ha affidato (e poi congelato) il reset azzurro tra le resistenze dei vecchi colonnelli, l’asse lepenista Salvini-Meloni ha più volte accusato chi, dentro il partito berlusconiano, è ancora «tentato dall’inciucio». O dal richiamo della pax nazarena nata proprio sulle riforme. Non è un caso che il vecchio cerchio magico berlusconiano, quello dei collaborati fidati Gianni Letta e Fedele Confalonieri ora tornato centrale, spinga lo stesso Silvio Berlusconi verso un “no” soft al referendum. Pressato da alleati (presunti) e dall’ala più oltranzista del partito, il Cav ha ribadito il No sul Tg5 dopo mesi di assenza dai teleschermi. Per poi concordare con gli stessi Salvini e Meloni una strategia comune per il referendum. Eppure, dentro la Lega continuano a fidarsi poco del “NO” del Cav, più interessato alle grane giudiziari (con il rischio di un nuovo rinvio a giudizio sul Ruby Ter) che al passaggio del 4 dicembre.
Per il no alla consultazione, dall’area di centrodestra, si schierano anche un pezzo dell’Udc (quello del segretario Lorenzo Cesa), il movimento IDEA del senatore ex Ncd Gaetano Quagliariello, i Conservatori e Riformisti dell’ex ribelle azzurro Raffaele Fitto. Cosi come i Popolari per l’Italia di Mario Mauro, la Destra di Storace, Azione Nazionale. E il Partito Liberale italiano. Voterà “NO” anche l’ex premier ed ex fondatore di Scelta Civica Mario Monti, ora senatore a vita e lontano dalla scelta “filo-verdiniana” di Enrico Zanetti, alleato con l’ex sodale del Cav: per il senatore a vita la riforma può anche migliorare la Costituzione, ma voterà contro. Il motivo? A suo dire, Renzi avrebbe ripreso l’uso di «quel metodo di governo che a mio giudizio è il vero responsabile – molto più dei limiti della costituzione attuale – dei mali più gravi dell’Italia : evasione fiscale, corruzione, altissimo debito pubblico».
Nel campo dell’estrema destra, anche CasaPound fa parte dell’eterogeneo fronte del No.
Netto invece il “No” al referendum costituzionale 2016 del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, con lo stesso Alessandro Di Battista che ha organizzato un tour in scooter per la penisola, dal 7 agosto al 7 settembre, per fare campagna contro le riforme costituzionali promosse dal governo Renzi.
Si schiera sul no anche Sinistra Italiana, il cantiere che riunisce (per ora soltanto in Parlamento, in attesa del Congresso di dicembre) i parlamentari di Sel e alcuni transfughi del Partito democratico, come Stefano Fassina e D’Attorre: «La vittoria del sì sarebbe la legittimazione di una nuovo quadro politico, con protagonisti Renzi Alfano e Verdini. Sono fiducioso che anche all’intero del Pd si faccia una campagna per il no insieme a noi», ha rivendicato lo stesso ex deputato dem. Un’area, quella a sinistra del Pd, che ha però calamitato consensi modesti alle ultime Amministrative, nonostante candidati autonomi e lo strappo dal Nazareno. A sinistra si schiera per il no anche Possibile di Giuseppe Civati, così come Rifondazione Comunista e l’Altra Europa con Tsipras. Si schiererà per il “no” al referendum costituzionale 2016 anche la Federazione dei Verdi, secondo la quale «le ombre prevalgono sugli aspetti positivi».
Per il no anche i separatisti sudtirolesi di Suedtiroler Freiheit, il partito di Eva Klotz.
COMITATI REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016: I DUE FRONTI
La battaglia tra il “Si” e il “No” al referendum costituzionale 2016, si traduce anche nello scontro tra i comitati. Sei sono i comitati che spingono il fronte dei favorevoli alla riforma: oltre a quello di ispirazione renziana “Bastaunsì“, ci sono i due del fronte centrista e moderato: “Liberali per il Sì“, degli ex berlusconiani Pera e Urbani, e “Insieme SI cambia” di Lorenzo Ornaghi, Giovanni Guzzetta e Giuliano Ferrrara. Dalla sinistra del Partito democratico è stato creato il comitato “Sinistra per il Sì“, con i ministri Orlando e Martina e il presidente del partito Matteo Orfini. Anche il Pd stesso attiverà i suoi 5 mila circoli, nonostante le divisioni al Nazareno con la minoranza. E infine c’è anche il comitato auto organizzato di “Rete dei Sì“: tra i testimonial ci sono i costituzionalisti Stefano Ceccanti e Francesco Clementi, il consigliere giuridico presso il Dipartimento del ministro della Riforme, Massimo Rubechi, il sindaco di Catania Enzo Bianco, il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti.
Più numerosi, considerato il fronte eterogeneo, i comitati del No. Quelli ufficiali sono 20, al momento. Dal fronte accademico e della sinistra si va dal “Coordinamento democrazia costituzionale” di Felice Besostri (già noto per il suo ricorso contro Porcellum, poi bissato con l’Italicum) a quello organizzato da D’Alema e Guido Calvi (“Io scelgo No”), al “Noi No!” di Sinistra Italiana. Fino ai neonati “Democratici per il No” lanciati da Stefano Di Traglia, ex portavoce di Pier Luigi Bersani, ai quali potrebbe aggregarsi presto anche il resto della Ditta.
In modo autonomo prosegue il Movimento 5 Stelle, dopo il tour di Alessandro Di Battista in giro per l’Italia.
Anche il centrodestra ha diversi comitati: il “Comitato per il No alla riforma costituzionale” rilanciato da Renato Brunetta, i “Presidenzialisti per il No alla Costituzione truffa” di Gianfranco Fini, ma anche singoli comitati lanciati dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni (“Comitato No Grazie“), il “Questa volta no” di Raffaele Fitto, i “Civici e Riformatori” dell’ex senatore di Ncd Gaetano Quagliariello. Senza dimenticare quello lanciato dall’ex leader del Family Day, Massimo Gandolfini (“Comitato famiglie per il No al referendum“). C’è anche la famiglia Craxi che, non è una novità, si divide anche sulla costituzione dei referendum: Stefania è con i “Riformatori per il NO”, Bobo con i “Socialisti per il NO”. Una babele, ma senza una regia condivisa.
Non è un caso che la stessa campagna del “No” sarà a dir poco povera di fondi e risorse investite, dal punto di vista economico. Appena 180 mila euro, nemmeno la metà del compenso che il Pd pagherà a Jim Messina, il consulente politico voluto da Renzi per vincere il referendum. Il motivo? Il comitato del No non ha raggiunto un numero di firme valide tale da ottenere accesso anche ai rimborsi, né i principali partiti opposti al Ddl Boschi, come Forza Italia e M5S, stanno investendo soldi in questa battaglia. Soltanto Sinistra Italiana spenderà circa 100mila euro nella campagna elettorale.
Tra i comitati del “Sì” e quelli del “No”, sono stati creati anche i “liberi comitati del So”, lanciati dai due senatori eletti con Sel e ora nel Misto, Dario Stefàno e Luciano Uras: «Noi ci iscriviamo allo stesso partito di Giuliano Pisapia: quello che non accetta che il confronto sulla revisione costituzionale si trasformi in uno scontro mortale tra le diverse anime del campo democratico e progressista, a danno della prospettiva di un ‘governo avanzato’ del Paese, nel più ampio interesse popolare». La riforma, spiegano, «non può essere giudicata come un attentato alle libertà e alla partecipazione democratica».
REFERENDUM COSTITUZIONALE ITALIA: I SINDACATI E LE ASSOCIAZIONI DIVISE
Il referendum costituzionale 2016 divide anche i sindacati. Se la Cisl si è schierata a favore del sì con la neopresidente Anna Maria Furlan, la Cgil – che aveva già contestato il Ddl Boschi, sia sul metodo che sul merito, – si è schierata ufficialmente, invitando i suoi iscritti a votare per il No. Non farà però parte di alcun comitato. Il No al referendum della Cgil rappresenta una nuova tappa della frattura tra il sindacato di Susanna Camusso e il governo, che va ormai avanti dall’approvazione del Jobs Act. Già anche la Fiom di Maurizio Landini si era mobilitata in modo netto per il No.
La Cisl ha invece elogiato una riforma che per la Furlan magari non è «da dieci», ma sicuramente «da sette più». Parole rilanciate dalla stessa Boschi: «La Cisl si è messa sempre tra coloro che innovano, tra coloro che cercano di andare avanti sulla strada delle riforme e non tra i conservatori, tra coloro che ritengono invece che tutto vada bene così com’è e non hanno interesse a cambiare», è stato l’affondo del ministro per le Riforme. Con un chiaro riferimento, pur senza nominarla, alla stessa Cgil.
Anche Confindustria di Boccia si è schierata per il sì: «Il bicameralismo va superato, il traguardo è a portata di mano», ha spiegato il neo presidente. Un fronte al quale ha “aderito” anche Sergio Marchionne, il numero uno di Fca – Fiat Chrysler: «Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta. L’unica cosa che interessa all’azienda è la stabilità del sistema», ha rivendicato, attirandosi anche l’ira del forzista Renato Brunetta.
Oltre alla frattura con la Cgil, non sono mancate le polemiche tra il Pd e l’Anpi, l’associazione dei partigiani che si è schierata per il “No” al referendum costituzionale 2016. Una decisione assunta il 21 gennaio scorso, quasi all’unanimità (con solo 3 astensioni), dal massimo organo dirigente, il Comitato nazionale. «E poi confermata dalla stragrande maggioranza dei Congressi di Sezione, Provinciali e dal Congresso Nazionale scorsi», si sono difesi i vertici dell’associazione, accusati di non rappresentare tutte le istanze dell’associazione.
Nella campagna elettorale rovente si è inserito anche l’endorsement dell’ambasciatore Usa in Italia John Phillips per il “Sì“, contestato dalle opposizioni come un’ingerenza nella politica italiana. «Il no alle riforme sarebbe un passo indietro», aveva spiegato. A smorzare i toni ci ha pensato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella vesti di “pacificatore”: «La sovranità è degli elettori». Parole apprezzate dalle stesse opposizioni.
I SONDAGGI SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016
Ma se il referendum divide i partiti, ancora in equilibrio sono le stesse intenzioni di voto tra i cittadini. Per capire quale sarà il verdetto del referendum costituzionale 2016 è chiaro che fino al giorno del voto gli occhi di tutti gli osservatori politici saranno puntati sui sondaggi elettorali che indicano il peso del Sì e del No. La certezza è che l’esito dipenderà molto anche dal tasso di affluenza alle urne. Una quota maggiore di votanti ai seggi potrebbe infatti favorire il fronte dei favorevoli al disegno di legge Boschi. Una percentuale minore, al contrario, potrebbe favorire il fronte delle opposizioni al governo.
La tendenza negli ultimi mesi è stata quella di una crescita dei “No”, in forte svantaggio a gennaio e arrivati anche a superare, seppur ancora in un testa a testa, i favorevoli al referendum costituzionale 2016. Le ultime rilevazioni attribuiscono invece una situazione di maggiore equilibrio o, al massimo, un leggero margine in favore del No. In base ai dati raccolti tra il 12 e il 17 ottobre da 6 diversi istituti demoscopici (Ixè, Index Research, Scenari Politici/Winpoll, Emg Acqua, Ipr Marketing e Tecnè) i favorevoli alla riforma oscillano (al netto di indecisi e astenuti) tra il 46 e il 50% dei voti, mentre i contrari tra il 50 e il 54%.
Dati alla mano, tutto è ancora in bilico. Sulla conquista degli indecisi o dei possibili astenuti si giocheranno i destini del referendum costituzionale 2016.
REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016: BENIGNI E SANDRELLI PER IL SÌ, FO, SERVILLO E VICARI PER IL NO
Così come partiti, associazioni di categoria e sindacati, anche vip, attori, registi si dividono sul sostegno o meno al referendum costituzionale 2016. Se Roberto Benigni, prima orientato sul “no”, si è alla fine schierato per il Sì («Pasticciata e scritta male? Vero, ma questa riforma ottiene gli obiettivi di cui parliamo da decenni. E se non passa sarà peggio della Brexit»), il premio nobel Dario Fo – vicino da tempo al Movimento 5 Stelle – si era schierato per il No, prima di spegnersi all’età di 90 anni.
Per il sì anche la regista Liliana Cavani e l’attrice Stefania Sandrelli, mentre Toni Servillo e il regista Daniele Vicari sono per il No, così come Monica Guerritore. Ha firmato un appello contro il ddl Boschi anche la cantante Fiorella Mannoia, mentre si attende di conoscere cosa farà Adriano Celentano, già però critico in passato sul testo. Anche il comico Maurizio Crozza non si è sbilanciato sul referendum costituzionale 2016, ma una sua battuta («L’unica cosa certa è che il Paese è spaccato a metà. È diviso tra chi voterà Sì alla riforma e chi invece l’ha capita») a Di Martedì è stata rilanciata dal fronte del No, come fosse una sorta di dichiarazione di voto, in antitesi alla scelta di Benigni. E Fiorello? Nulla da fare, non vuole esprimersi: «Il referendum? Pensate che vi dico cosa voto? Mica sono matto. Mica voglio finire come Benigni che gli tirano le pietre. Io dico che non voto né “Sì” né “No”, voto “forse”». L’ex allenatore del Milan, Arrigo Sacchi, ha invece già scelto per il “Sì”, abbandonando il Cav:«Ho sempre seguito e votato Berlusconi ma sul Referendum voterò SI, secondo me stavolta Berlusconi sbaglia».
E gli intellettuali? Tra chi è si è schierato ci sono gli scrittori Susanna Tamaro e Federico Moccia — che hanno aderito alla campagna “pacatosì“) e il filosofo Umbero Galimberti a favore del sì, Ermanno Rea e Salvatore Settis per il fronte del No. Schierati contro anche gli storici Paul Ginsborg e Nicola Tranfaglia, oltre al filologo Luciano Canfora. Non si è ancora espresso invece Nanni Moretti.