«La Trattativa Stato-mafia era necessaria»

17/03/2014 di Alberto Sofia

«VOGLIONO FERMARE IL PROCESSO» – Secondo Salvatore Borsellino, contattato da Giornalettismo, diversi sono i tentativi per «fermare il processo» sulla trattativa in corso a Palermo e per delegittimarlo. Non solo gli interventi di alcuni intellettuali, compresi Salvatore Lupo e Giuseppe Fiandaca. Come dimenticare anche le critiche di Pino Arlacchi, sociologo ed europarlamentare (ex Idv, poi Pd) che ha bollato in un’intervista con Panorama come un’«allucinazione» senza «una sola prova seria» la trattativa Stato-mafia, prevedendo che il processo «si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia e soci». Lo stesso Arlacchi che poco tempo prima, come testimone nel 2009 di fronte ai pm di Caltanissetta, sposava le tesi della Procura di Palermo. Contro il saggio che giustifica la trattativa Salvatore Borsellino usa toni forti: «Certe tesi non ho nemmeno voglia di leggerle. In questo momento in Italia si vuole impedire in ogni modo che il processo vada avanti. C’è un’azione concentrica contro il pool di Palermo», ha spiegato, contestando le tesi portate avanti nel saggio. «La mafia non ha vinto? Questa tesi non ha alcun senso. Nel nostro paese continuiamo a pagare le cambiali di una trattativa che non è costata soltanto la vita a mio fratello, bensì anche ad altre vittime innocenti, come quelle morte in via Palestro e in via dei Georgofili. Stragi fatte per alzare il prezzo di quell’accordo e per concludere la trattativa (secondo i pm la trattativa nel ’94 fu conclusa «con le garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi, come emerge dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori Spatuzza, Brusca e Giuffrè», ndr)», ha spiegato Borsellino. Nonostante la  denuncia per vilipendio nei confronti del capo dello Stato Giorgio Napolitano, fatta alcuni mesi fa nei suoi confronti da Vittorio Sgarbi, Borsellino ha rilanciato le critiche contro il presidente della Repubblica: «Il suo settennato è stato rinnovato proprio perché è il garante di quel silenzio sulla trattativa. Una congiura che dura da vent’anni. Oggi che c’è il rischio che certe cose vengano alla luce, si sta cercando di giustificare quel patto scellerato come se fosse stato necessario per una ragion di Stato», ha attaccato. Oppure, come hanno spiegato Fiandaca e Lupo nel loro saggio, secondo un presunto «stato di necessità», a “fin di bene”: «Ma affermare questa tesi è come uccidere di nuovo le vittime che la trattativa stessa ha prodotto. Un’offesa alla loro memoria», ha spiegato. Per Borsellino i «prodromi della giustificazione della trattativa» e della delegittimazione del processo si sono potuti già intravedere. Anche con la contestata sentenza sul processo Mori. « È stato deciso in primo grado che il fatto, la mancata cattura di un latitante, c’è stato, ma non costituisce reato. Una sentenza preparatoria. Sono sicuro che anche in futuro si dirà lo stesso per il processo sulla trattativa: c’è stata, ma non costituisce reato il fatto che pezzi dello Stato siano venuti a patti con Cosa Nostra, elevandola al rango di interlocutore, come fosse uno Stato parallelo».  Secondo Borsellino i tentativi di attaccare il processo sono continui: «Ci stanno tentando delegittimando i testimoni, così come cercando di mettere sotto stress il principale attore di quel processo, Nino Di Matteo. A lui si concedono quei mezzi di protezione appariscenti, ma insufficienti per fermare gli attentati. Tant’è vero che con una scorta potenziata sono stati uccisi sia mio fratello che Giovanni Falcone. Al contrario, si continua a contestare il suo operato».

mario mori
Mario Mori

Polemiche aveva suscitato anche l’istanza di rimessione presentate dai legali di Mori, Subranni e De Donno per chiedere il trasferimento del processo, insieme alla richiesta di sospendere il processo. Fondata, secondo la difesa dei tre imputati su una serie di elementi (dalle minacce di Totò Riina, agli anonimi giunti alle Procure di Palermo e Caltanissetta, all’incursione in casa del pm Roberto Tartaglia, tra i magistrati del pool palermitano, ma anche la creazione delle “Scorte civiche” in difesa simbolica dei magistrati) che a loro dire dimostrerebbe che lo svolgimento del dibattimento nel capoluogo siciliano creerebbe pericolo per l’incolumità pubblica, con il rischio di influenze anche sull’intero ambiente giudiziario di Palermo e sulla serenità dei giudici popolari. «Hanno cercato di strumentalizzare anche l’appoggio dell’opinione pubblica con le Scorte civiche ai pm per chiedere lo spostamento del dibattimento. Ma non si capisce che senso avrebbe questa istanza, dato che lo Stato non riesce ad assicurare la sicurezza di questi magistrati nemmeno fuori da Palermo. Tanto che a Di Matteo è stato impedito di andare a Torino, dove era stato invitato a una manifestazione, per ragioni di sicurezza, così come gli è stato sconsigliato di andare a Milano per seguire l’udienza, sempre per lo stesso motivo» (fu il procuratore Francesco Messineo a spiegare l’assenza, motivandola con la «necessità che i magistrati sottoposti a tutela non siano troppo abitudinari»: «Variare orari, itinerari ed evitare di ripetere comportamenti e appuntamenti fissati da tempo sono ragionevoli forme di protezione», disse. ndr). Borsellino ha continuato: «Allora dove si dovrebbe svolgere questo processo? Bisogna andare in Svizzera o in Finlandia per garantire la sicurezza?». Per il fratello del giudice Borsellino, si tratta di una serie di tasselli che conducono a un unico obiettivo, quello di voler «bloccare un processo scomodo».

«VOLEVANO SALVARE LA CASTA» – Altro che «stato di necessità» e tutela dei cittadini. Con la trattativa secondo Borsellino si voleva soltanto «difendere una casta in disfacimento, ma ancora abbastanza potente da pretendere da pezzi dello Stato che venisse intavolata e conclusa la trattativa. E di fronte a questo la mafia non avrebbe vinto? Di sicuro lo Stato ha perso, non c’è dubbio», ha continuato. «Una volta finita la prima trattativa, sono cambiati i referenti e c’è stato il secondo accordo, quello concluso nel ‘94. Stipulato attraverso nuovi garanti e intermediari, come Dell’Utri da una parte e dall’altra l’ala moderata della mafia, quella di Provenzano, più adatto a stabilire un nuovo patto con lo Stato».

BONFANTI - PROCESSO DELL'UTRI: SENTENZA ANNULLATA
Marcello Dell’Utri

LA DEPOSIZIONE DI SPATUZZA – Nell’ultima udienza, dal carcere di Rebibbia a Roma, è stato il pentito Gaspare Spatuzza a deporre come teste, spiegando di aver già avvertito nel 1997, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, di «fare attenzione a Milano 2». Da allora sono trascorsi 12 anni prima che l’ex killer di Cosa nostra e braccio destro del boss Giuseppe Graviano si decidesse a collaborare e parlare esplicitamente di Silvio Berlusconi. Ma l’argomento, secondo la sua versione, era ritenuto talmente pericoloso da averlo affrontato soltanto nel 2009, a un anno dalla formalizzazione del pentimento. Ben oltre i sei mesi che la legge – dopo la riforma Fassino-Napolitano –  impone ai collaboratori come limite per raccontare tutto. Un punto, quello dei ricordi tardivi, sul quale ha puntato la difesa di Dell’Utri: «Dopo alcune settimane dalla mia decisione di collaborare con la giustizia, nel 2008, cadde il governo Prodi e subentrò in me un grosso timore. Mi trovai il Cavaliere presidente del Consiglio e Alfano come ministro della Giustizia e le mie preoccupazioni aumentarono ulteriormente», ha replicato Spatuzza. Non senza ricordare le confidenze ricevute da Graviano nel ’94, l’accenno a una trattativa in corso – «Abbiamo una cosa in piedi», gli avrebbe rivelato il boss – e la felicità del capomafia che gli svelò di tenere il Paese sotto scacco grazie al duo Berlusconi-Dell’Utri. Lo stesso Spatuzza ha ribadito come dietro la stagione stragista del ’92-’93 non ci fosse stata solo Cosa Nostra. Lui, che faceva parte del gruppo di Brancaccio, reperì il tritolo dagli ordigni bellici nei fondali marini. Ma ha spiegato come venisse utilizzato pure «un altro tipo di esplosivo, una specie di gelatina», del quale non conosceva l’origine. Resta il mistero su quelle entità esterne che avrebbero affiancato Cosa Nostra nelle stragi, quelle «menti raffinatissime» di cui parlava Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura, rimaste a oltre vent’anni di distanza ancora nell’ombra. Un personaggio oggi defunto, il pentito ed ex membro di Cosa nostra Salvatore Cancemi, disse che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. E nella sua deposizione Spatuzza ha anche parlato di quell’uomo esterno a Cosa Nostra, nel garage di via Villasevaglios, mentre la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti veniva trasformata in autobomba: «Non era un ragazzo, né un vecchio. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Non mi allarmò la sua presenza perché se era lì era perché Giuseppe Graviano lo voleva». Spatuzza ha spiegato di aver cercato negli anni di dare indicazioni su di lui, ma di avere ricordi sfocati. Quel coinvolgimento di altri settori – tra sospetti su servizi segreti deviati, massoneria e destra estrema – nella stagione stragista del ’92-’93 era stato oggetto dell’indagine sui “Sistemi criminali”, archiviata per la mancanza di sufficiente materiale probatorio da poter arrivare a processo. Eppure dalle indagini i pm erano portati a concludere come la mafia fosse un asse portante « di un autentico “sistema criminale” in cui venivano a convergere le altre più pericolose consorterie di stampo mafioso e non». Anche Borsellino ha aggiunto: «Io lo dico da anni che quella di via d’Amelio è stata una strage non solo di mafia, ma di Stato. Mi limito a parlare di mafia e Stato, ma sono convinto che ci sia molto di più. Sono convinto dell’esistenza di questi sistemi criminali, che magari sono indipendenti tra di loro, ma nei momenti cruciali collaborano per arrivare a obiettivi comuni», ha aggiunto.

IL MESSAGGIO DI MORTE DI TOTÒ RIINA A DI MATTEO –  Dopo il messaggio di morte inviato da Riina dal carcere di Opera nei confronti di Nino Di Matteo, Borsellino ha aggiunto di avvertire «un attacco concentrico nei confronti della procura di Palermo» da chi tenta di difendere quel silenzio che dura da 20 anni. Eppure allo stesso tempo ha rivendicato un «largo appoggio della parte sana dell’opinione pubblica». Sulle intercettazioni di Riina, a colloquio con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso, ha aggiunto: «Ho letto le interpretazioni di chi ritiene che siano minacce che arrivano da chi non ha ormai nessuna possibilità di metterle in pratica. Ma per me ha ancora un grosso potere sulla mafia. E le sue parole servono a lanciare un messaggio: “La mafia è ancora disponibile a fare un lavoro sporco, siamo ancora disponibili”. Può anche essere letta come una fatwa, lanciata da quello che è ancora una sorta di capo spirituale. Chi la raccoglie, potrebbe scalare le gerarchie mafiose e legittimarsi», ha continuato Borsellino. «Restano complicate» da interpretare, invece, secondo il fratello del giudice,  le parole di Riina sulle modalità d’esecuzione sulla strage di via D’Amelio. Il  “Capo dei Capi” è stato intercettato mentre spiegava che Borsellino “si futtiu sulu” (tradotto, “si è fregato da solo”), lasciando intendere che avrebbe direttamente innescato l’autobomba suonado il campanello di casa di sua madre. Restano dubbi sulla vicenda, considerato come finora era stato Giuseppe Graviano quello indicato di aver azionato il telecomando collegato all’autobomba, nascosto a poca distanza, in un giardino dietro ad un muretto che divide in due via D’Amelio (ricostruzione fatta anche dal pentito Fabio Tranchina, ndr).  «Sembra un’opzione incredibile e improbabile, dato che quel palazzo era molto frequentato e in quel citofono c’erano almeno 50 pulsanti diversi. Anche se fosse stato collegato soltanto a quello della casa di mia madre e mia sorella, una qualunque persona avrebbe potuto far fallire l’obiettivo dell’attentato, per errore». Borsellino ha però spiegato di aver fatto delle ipotesi di natura tecnica: «Sarebbero serviti due dispositivi. Uno attivabile dall’esterno, posto nella macchina, che servisse a sua volta ad abilitare il primo dispositivo collegato al campanello. Un meccanismo che avrebbe permesso di assicurare che mio fratello si trovasse al punto giusto quando veniva azionato il timer. Ma di fatto un sistema complicato, che richiedeva competenze che la mafia difficilmente aveva. Potrebbe spiegare, però, la presenza di quel soggetto che Spatuzza non conosceva mentre la 126 veniva preparata complicato. Magari una persona dei servizi segreti». Resta da capire anche «il motivo sul perché Riina esca fuori soltanto adesso con queste dichiarazioni», ha concluso.

IL RISCHIO DI NUOVE STRAGI – Per Borsellino, infine, c’è ancora il rischio della «tentazione del botto»: «In quel sistema che ha attuato la strage di Via D’Amelio c’è chi può riprendere i metodi stragisti. Siamo in un momento molto pericoloso, simile a quello del ’92 e di altre epoche in cui per passare da un sistema di potere a un altro sono state realizzate stragi di Stato. Ma c’è anche un altro elemento: la necessità di fermare questo processo. L’extrema ratio potrebbe essere quello di realizzare un’altra strage». E il nuovo governo Renzi, sul piano della lotta alla mafia? Secondo Borsellino c’era stato «un segnale inaspettato» con la proposta di Nicola Gratteri alla Giustizia, poi bocciata: «Potrebbe essere stata soltanto una mossa ad effetto, considerato come era chiaro che la sua nomina non sarebbe stata accettata da Napolitano. Per ora ci sono segnali contrastanti, ma si resta soltanto sul campo delle parole. Ma non si può ancora dare un giudizio». E con uno sguardo al recente passato, ha bocciato il modo in cui si è sviluppata la candidatura di Antonio Ingroia, che gli elettori non hanno premiato: «Il progetto di entrare nelle stanze della politica era corretto. La magistratura aveva fatto il massimo che poteva ottenere e per cercare la verità era necessario un salto di livello. Purtroppo il modo in cui il progetto è stato condotto non è stato consono alla bontà originaria. La sua figura di magistrato non può essere di certo annebbiata, ma sul piano politico il giudizio non può essere altrettanto positivo» .

(Photocredit: Seven-network.it)

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