Suicidio assistito ed eutanasia, ecco dove sono possibili nel mondo
30/11/2011 di Tommaso Caldarelli
La scelta di Lucio Magri riporta al centro del dibattito il problema della dolce morte
Silenzio. Così ha scelto di morire Lucio Magri, dirigente del Partito Comunista prima, poi fondatore del quotidiano il Manifesto, ma soprattutto uomo innamorato di una moglie che lo ha lasciato troppo presto, e lo ha fatto cadere in una incurabile depressione. Lucio Magri non era malato, non aveva una patologia terminale o invalidante, non era un malato di cancro all’ultimo stadio, non sarebbe morto comunque di lì a poco: ha scelto che la sua vita non valeva più la pena di essere vissuta, perché tutto era finito e non c’era nulla di recuperabile. E ha scelto di allontanarsene con quello che a suo giudizio è stato il metodo più degno e sereno.
EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO – Si tratta di una scelta forte, che riporta con uguale forza al centro del dibattito italiano la questione dei temi etici, del fine vita, e della libertà di scelta; soprattutto per le peculiari caratteristiche della scelta di Magri, che, come abbiamo detto, non malato, ha deciso comunque di porre fine alla sua vita. L’ha fatto dove si poteva, non in Italia: in Svizzera, dove le leggi della Confederazione Elvetica permettono un ricorso piuttosto libero alle procedure di suicidio assistito. Innanzitutto è bene precisare i termini tecnici: si parla di suicidio assistito quando è il malato a darsi la morte, magari con farmaci concessi dietro procedura medica e consentiti da una legislazione permissiva in questo senso. Un po’ come Socrate, che chiese la cicuta: diverso il caso dell’eutanasia, che prevede l’intervento attivo (il medico che inietta il farmaco letale) o omissivo (la sospensione delle cure) delle persone che ruotano intorno (medici, ospedali, familiari) a chi vuole porre fine alla propria esistenza. In quasi nessun caso, al mondo, vi sono leggi che disciplinano e permettono l’intervento eutanasico attivo: come stavamo dicendo, la normativa più permissiva, quella che provoca le accuse di “turismo del suicidio”, è quella svizzera.
Chiunque, per motivi personali, induce una persona a commettere suicidio o lo aiuta in questo, sia rinchiuso per non più di cinque anni, sia che il suicidio sia stato effettuato o solo tentato
L’articolo 115 del codice penale svizzero è tratto dal sito della Dignity, una delle principali strutture svizzere per il suicidio assistito, una di quelle criticate da Giuliano Ferrara nella sua puntata di ieri di Qui Radio Londra. “In breve”, fa notare Dignity, “questo vuol dire che qualsiasi suicidio assistito non perpetrato per motivi personalistici – ovvero, ad esempio, ereditare qualcosa o ottenere altri benefici” non è punibile come reato penale.
DIGNITAS – “In caso di malattia incurabile medicalmente diagnosticata” o ancora “dolore insopportabile o disabilità ingestibili, DIGNITAS offre ai suoi membri l’opzione di un suicidio accompagnato”: non è che una delle strutture che si giova dell’interpretazione estensiva del codice penale risalente agli anni ’80: la norma è infatti in vigore dagli anni ’40, ma solo in tempi recenti è stata ritenuta utilizzabile per perpetrare suicidi assistiti. Un recente referendum ha posto in discussione la normativa all’interno dell’ordinamento svizzero: molto contestata la possibilità di usufruire della normativa svizzera anche da parte degli stranieri – come, d’altronde, Lucio Magri. La stragrande maggioranza dei cittadini dei cantoni ha negato di volere qualsiasi modifica della legislazione e di non avere alcun problema nell’accesso a queste terapie anche da parte dei non cittadini svizzeri. Il metodo DIGNITAS è molto stringente, visto che prima di procedere al suicidio il richiedente viene sottoposto ad una serie di colloqui per accertare se la volontà di morire sia genuina, o se non sia invece indotta da una serie di fattori esterni; “si viene coinvolti in una serie di discussioni dettagliate sulla determinazione del paziente; viene fornito un modulo sul quale viene scritto il proprio desiderio di morire in termini non equivocabili e che permette all’ente di portare a termine i desideri del paziente anche in caso di successiva opposizione, se necessario”, diceva la Bbc. E c’è il caso di un conduttore inglese, Sir Edward Downes, morto in perfette condizioni di salute in una clinica appena fuori Zurigo, insieme alla moglie, a cui era stato diagnosticato un cancro terminale.
IN EUROPA – La Svizzera non è l’unico paese europeo in cui si perpetra il suicidio assistito. L’Olanda ha recentemente approvato una normativa che lo permette: nei Paesi Bassi tutto era partito dal caso Postma, in cui un medico, dopo plurime richieste di eutanasia, aveva facilitato la morte di una paziente. Il giudice aveva allora stabilito i criteri per valutare se un comportamento era eutanasico oppure no; questa prassi si era radicata e nel 2002 ha portato all’approvazione di una legge che disciplina il comportamento degli operatori sanitari. La particolarità è che in Olanda è permessa anche l’eutanasia attiva, visto che si formalizza, come dicevamo, la prassi giurisprudenziale che scrimina qualsiasi medico che abbia perpetrato eutanasia se ricorrono i criteri previsti dalla legge, tutti e contemporaneamente: male incurabile e senza prospettive di miglioramento, richiesta esplicita e persistente, consenso informato, colloquio “con un medico indipendente”, operazione condotta a termine “dal medico o dal paziente, ma con il primo comunque presente”, e soggetto di età maggiore ai 16 anni – ma non è escluso il consenso dei genitori per età minori. Non costituisce profilo di rilevanza penale la cosiddetta eutanasia passiva, laddove ricorra il caso “di fermo o mancato inizio di trattamenti medici inutili, o laddove il paziente chieda di fermare o non iniziare il trattamento, o ancora nel caso di morte nell’ambito di un trattamento palliativo del dolore”. In breve, in Olanda è possibile morire, ma il criterio svizzero rimane in ogni caso il più permissivo, perché nei Paesi Bassi è richiesta la presenza di una “malattia incurabile”: è già partita la raccolta firme per formalizzare il diritto degli ultrasettantenni di andarsene senza fornire spiegazioni, assistite da tutte le garanzie medico-professionali.
USA – Assolutamente analogo l’impianto belga, dove è chiesta la presenza di una malattia incurabile; così come nel Lussemburgo, dove la legge è in via di approvazione con gli stessi criteri. Nel resto d’Europa non mancano discussioni e dibattiti, ma sono soltanto questi i paesi del vecchio continente a permettere l’eutanasia o il suicidio assistito; negli Stati Uniti il procedimento è vietato, tranne che in tre stati, ovvero l’Oregon, il Montana e lo stato di Washington. Il noto caso del dottor Kervorian, negli anni ’90, scosse l’opinione pubblica: il medico del Michigan aveva aiutato almeno 40 persone a suicidarsi, ma ogni accusa contro di lui era stata archiviata perché il fatto non costituiva esplicito reato; quando, anni dopo, Kervorian provvide ad un eutanasia attiva, fu incarcerato per omicidio praeterintenzionale fino al 2007; morì poco dopo. Intanto in Oregon era partito il Ballot 16, un referendum che portò all’approvazione del Death With Dignity act, ancora una volta un impianto simile a quelli europei, visto che si parla di pazienti in fin di vita: ci vuole una commissione di medici che valuti se il paziente abbia più di sei mesi di vita e se sia nel pieno delle sue facoltà mentali; il paziente deve ribadire la sua volontà e metterla per iscritto; a quel punto può avere una prescrizione di farmaci letali. Nel 1997 un successivo referendum ha posto in questione la validità del Death with Dignity, ma nonostante il Ballot 16 fosse stato approvato di misura, il secondo voto ha mostrato che gli oregoniani avevano gradito l’introduzione della misura, visto che fu respinta l’approvazione col 60% dei consensi. Nel confinante stato di Washington, nel 2008, è stata approvata una legge in tutto e per tutto analoga, dopo che nel 1994 una simile iniziativa andò a vuoto.
NON IN ITALIA – Nel Montana la legalità del suicidio assistito è stata introdotta per via giudiziale: nel caso Baxter contro Montana la Corte Suprema ha stabilito che sebbene la costituzione dello stato vieti l’eutanasia, “non v’è nulla nel testo legislativo che vieti di assistere il suicidio altrui”. Con il terzo stato americano abbiamo finito i paesi in cui l’eutanasia è legale; non mancano però i casi in cui è possibile avere accesso al suicidio assistito in totale illegalità. Ad esempio è controverso il caso del Messico, dove è legale la vendita, nei negozi di animali, di un farmaco eutanasico appunto per animali (il Pentobarbital) che però se assunto dall’uomo garantisce una morte silenziosa e indolore nel tempo di due ore. E in Italia? La questione è materia di dibattito da molto tempo, anche da prima del caso Eluana Englaro. La nostra Costituzione, in teoria, stabilisce con chiarezza il diritto di ognuno al rifiuto delle cure mediche indesiderate: il che potrebbe aprire la strada all’eutanasia passiva, se non al suicidio assistito.
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Secondo l’opinione politica prevalente negli ultimi anni, e dunque le attuali leggi, l’alimentazione e l’idratazione non potrebbero essere considerate come cure mediche, e di conseguenza non potrebbero essere interrotte per esplicita richiesta del paziente, secondo dunque l’articolo 32 della Costituzione.
IL CASO ENGLARO – Il caso Englaro è stato uno dei momenti di crisi istituzionale e politica più acuta di sempre, con a scendere in campo le massime autorità dello stato – presidente del Consiglio e della Repubblica – su opposte posizioni. Nel 1992 Eluana Englaro, studentessa lombarda, rimane coinvolta in un incidente che la costringe immobile su un lettino. Fin dall’inizio la famiglia inizia a chiedere ai medici che staccassero la spina, vista l’esatta determinazione della ragazza che, commentando un precedente evento del genere, aveva sempre detto che per lei una vita immobilizzata su un lettino non fosse vita degna da viversi. Dal 1999 comincia il procedimento giudiziario che, in un unicum praticamente mondiale, porta tutti i livelli giurisdizionali ordinari, amministrativi, europei e costituzionali, ricostruiscono la volontà della ragazza e certificano la sua scelta di morire. Nel febbraio 2009, in una frenetica serie di giornate, Eluana Englaro muore, nonostante stesse per essere approvato un decreto legge d’urgenza che impedisse la sospensione di qualsiasi alimentazione ed idratazioni forzate a pazienti in condizioni analoghe alla giovane. A tutt’oggi, nonostante le polemiche seguite a quel caso, in Italia manca una norma che disciplini la fattispecie: chi vuole usufruire di una morte volontaria e per lui degna, si dirige altrove. In Svizzera, come Lucio Magri