Alla faccia dei social e degli haters: l’Italia è meglio di come la dipingiamo
25/08/2016 di Giordano Giusti
No, non ci sono solo gli idioti che insultano i migranti perché sono negli hotel con il wifi a spese nostre e ai terremotati toccano le tendopoli. Non ci sono solo gli sciocchi che credono che il jackpot del Superenalotto sia di proprietà dello Stato e possa essere interamente devoluto alle famiglie delle vittime, gli invasati che danno la colpa all’abominio delle unioni civili o al karma perché l’amatriciana è di Amatrice e nella ricetta c’è la carne – nonostante le smentite. Non ci sono solo i complottari, quelli che i terremoti non sono eventi naturali, possono provocarli dove e quando vogliono, quelli che il sisma è stato indotto dalle elite al potere, quelli che straparlano di onde radio, scie chimiche e Haarp. Non ci sono solo i fatalisti che rilanciano la maledizione dell’Ora del Diavolo (Come a L’Aquila!), non ci sono solo i perversi che esprimono solidarietà scattando selfie con le macerie alle spalle o le tette in primo piano.
Ecco, l’Italia delle ore successive al terremoto non è tutta qui, e vivaddio. C’è una maggioranza silenziosa, solidale, discreta che ha compassione, partecipa, si attiva. C’è un paese unito – adulti, anziani e adolescenti, donne e uomini, senza distinzioni di status – che se ne fotte di ogni possibile polemica, ogni impossibile dietrologia. E raccoglie cibo, abiti e scarpe, mette a disposizione una stanza, un letto, offre un caffè. Oppure tace, soffre in silenzio, perché non ha nulla da dare o perché ha perso le parole. Chi crede, prega.
Al Policlinico Umberto I di Roma, alle 7,30 di questa mattina, c’erano oltre 200 persone per donare il sangue. La fila si ingrossa con il passare delle ore: si sta lì, dandosi indicazioni a vicenda, facendo girare i moduli per l’accettazione. Abituati alle classiche code all’italiana, tra scortesie, spintoni e furbizie per passare avanti, quasi stupisce l’educazione, la misura, l’empatia. Dopo eventi così tragici sappiamo riscoprirci civili. C’è un ragazzo con Duele el corazon di Enrique Iglesias nelle cuffiette, il padre gli fa compagnia per un po’ poi va a lavoro, ha donato qualche settimana fa. C’è chi chiama a casa per sapere se ha fatto il vaccino dell’epatite B. C’è l’ambasciatore di un paese africano con l’interprete. Chi si preoccupa della pressione bassa, chi «Ho preso un Moment ieri, potrò donare?» C’è la ragazza che è stata in Cina due settimane fa, deve ritornare. Tanti giovani.
I primi, arrivati intorno alle 7, se ne vanno verso mezzogiorno. C’è parecchio da aspettare – l’accettazione, l’esame dell’emoglobina, il colloquio con un dottore che valuta il questionario e misura la pressione, poi se è tutto ok la donazione che dura almeno dieci minuti. Eppure non vola quasi una mosca, un’infermiera fa avanti e indietro con un vassoio di bicchieri d’acqua, comincia a fare caldo. Gli astanti condividono giornali e caricabatterie. Ce ne fosse uno che si lamentasse della troppa attesa, va bene che viene rilasciato il modulo con cui la giornata di lavoro viene indennizzata anche a chi risulta non idoneo, ma non siamo qui per questo, c’è chi non lo prende nemmeno, non pochi sono in ferie. Inoltre, nei locali del Centro trasfusionale, si dannano l’anima tutti: volontari, operatori sanitari, medici; fare bene, il più veloce possibile, c’è tanta gente. Alle 13,30 ci sono quasi 150 sacche di sangue. «Ho detto a tutti i colleghi di chiamare a casa: non si sa a che ora smonteremo oggi» ci dice un responsabile, l’accettazione chiude alle 15 «ma non rimandiamo a casa le persone che si sono fatte quattro ore di fila sotto il sole». Si va a oltranza. C’è bisogno: soprattutto di un’Italia così.
Photocredit copertina Giordano Giusti @giornalettismo